Produrre e tacere: gli imperativi categorici della pandemia

by Enrico Ciccarelli

Mi ero soffermato ieri sul “tradimento dei chierici” operato dalla comunità scientifica internazionale, venuta -secondo me- largamente meno ai suoi doveri durante questa aggressione pandemica e votatasi, sull’onda di un infondato delirio di onnipotenza, a contiguità e complicità con poteri di varia guisa. Poteri che in questo momento non sono soltanto tesi alla perpetuazione e alla conservazione di se stessi e delle sagome caricaturali di cui si servono; non c’è catastrofe o catarsi del genere umano, dalle guerre alle epidemie, dalle scoperte alle innovazioni, che non corrisponda a un ridisegno di mappe sociali e riallocazioni economiche. In queste finestre della storia emerge con corrusca evidenza l’inganno consueto delle finte categorie (“il popolo”, “la nazione”, la “comunità”) e la sottostante, brutale realtà di quello che con terminologia desueta si chiama “lo scontro di classe”, la permanente disputa fra chi ha molto e chi ha poco o nulla.

Non desta particolari sorprese che i ricchi e i potenti del mondo usino la politica come testa di turco su cui convogliare la rabbia senza speranza dei cittadini; né tantomeno che si usi la punteggiatura della guerra civile strisciante (“Italiani” contro “stranieri”, “lombardi” contro “napoletani”, lavoratori autonomi contro impiegati pubblici, vecchi contro giovani e così via) per nascondere la domanda chiave, che è: la pandemia (rectius, il livello di sopportabilità che le assegniamo) è compatibile con le attuali strutture dell’ordine costituito, in particolare con la distribuzione ineguale della ricchezza?

Perché a me sembra sinceramente strano che le nazioni più ricche del pianeta, quelle dell’Unione Europea, prevedano di indebitarsi per cifre astronomiche a carico delle future generazioni senza che nessuno proponga non dico la rivoluzione proletaria, ma nemmeno una patrimoniale piccina piccina, nemmeno un piccolo e momentaneo contributo di solidarietà dai garantiti ai precari. Per carità, l’una e l’altra ipotesi sono sgradevoli, desterebbero meritata diffidenza e sarebbero probabilmente inattuabili: ma darebbero il segno di voler andare oltre le Colonne d’Ercole della rassegnazione, di mettere in discussione costrutti mitologici come l’intangibilità e l’irreversibilità degli attuali assetti economici e degli attuali modi di produrre.

Il fortilizio dei ceti dominanti è lì, nella difesa strenua e ideologica di un impianto culturale che ne genera uno sociale e persino antropologico. Dall’alto della rocca dei privilegi (che certo è molto mutata da quella del tempo del padrone delle ferriere e del sciur padrun da li beli braghi bianchi; ma ha impressionanti somiglianze e parentele con essa, a cominciare dalle biografie di chi la abita), piovono frombole, dardi e olio bollente non solo sulla folla affamata e diffamata di chi protesta (certo, anch’essa popolata di abusi, eccessi, deliri), ma su tutto quanto potrebbe darle forza in atto o in prospettiva.

L’attacco alla scuola è tutto qui: nella tenuta in scacco dell’unico vero ascensore sociale del Novecento, dell’unica traiettoria di riscatto e di progresso tracciata per le classi subalterne (il socialismo non fu il Biennio Rosso, ma la Società Umanitaria), del terreno cruciale del riformismo. Un’aggressione che rende ancora più amaro il rimpianto per l’inconsulto e folle sabotaggio della Buona Scuola (lo so, la maggior parte degli insegnanti si sentirà tarantolata da questa affermazione; ma la verità è che quella riforma vilipesa –e certo in parte criticabile- aveva alla sua radice un’idea di tempo pieno, di scuole aperte come presidi di socialità, di riunificazione anche didattica del Paese che nessuno ha più il coraggio di affrontare).

A questo fronte cruciale se ne associano per conseguenza altri, legati alla crociata contro “l’inessenziale”. Bisogna ridurre, contenere azzerare le relazioni “non necessarie”. Sembra di sentir risuonare la voce immortale di Wislawa Szymborska (Che cosa è necessario? È necessario fare una domanda, e alla domanda allegare il curriculum). L’imperativo categorico è produrre (anche nell’interesse dei ceti dominanti di cui sopra): è “necessario” che le fabbriche del bresciano continuino a produrre armi, che le tipografie stampino i gratta e vinci e le altre ricevute dei giochi d’azzardo, che le borse valori mobilitino quantitativi enormi di inesistente denaro virtuale. Oltretutto alcune di queste attività si prestano alla colorata fantasmagoria dello smart working; cosa volete di più?

Non è “necessario”, invece, avere affetti fuori della famiglia, non è necessario che i giovanissimi possano infrattarsi in auto, non è necessario che si possa essere con i propri simili in un teatro o in uno stadio a seguire un concerto, non è necessario che ci si riunisca a discutere e apprendere, non è necessario che ci si incontri, si litighi, ci si ami. L’Homo economicus diventa il marcusiano uomo a una dimensione: ciascuno sia ciò che produce, tanto meglio se sul suo prodotto si stende l’ombra marxiana dell’alienazione.

Ovviamente, per dare qualche offa alla plebe, si pongono –con il dovuto rispetto- pesi e gravami anche a qualche potente corporazione: la grande distribuzione e i centri commerciali pagano dazio al crucifige di gran moda contro la domenica, giornata di riposo, ergo improduttiva, ergo blasfema (in realtà questa misura, prevista nelle bozze, è sparita dal testo del Dpcm, ndr). Unico rimedio, una bella Messa catodica bissata nel pomeriggio dai diversi “contenitori” (che d’altronde nacquero proprio a seguito di uno shock economico, con il blocco del petrolio seguito alla guerra del Kippur). Come valvola di sfogo ci sono sempre i social, sui quali augurare morti dolorose agli eretici senza mascherina, inviperirsi contro il vicino che porta a spasso il cane e dolersi dei bambini (non ancora in età da lavoro, quindi sospetti) che –chiusi in casa- osano fare baccano.

Voi siete sicuri che –posti di fronte alla scelta fra vivere così e morire di Covid- scegliereste la prima? Personalmente ho qualche dubbio. E se poi ci aggiungete la tragica irrisione che anche con una vita del genere qualcuno di Covid morirà comunque…

Siccome questo articolo è idoneo a generare tristezza, e quindi a intossicarvi la giornata, già di suo resa plumbea da questo clima infame, penso sia il caso di regalarvi i versi ironici e bellissimi della poesia che vi ho citato: Scrivere il Curriculum. C’è più verità in essa che in tutte le collezioni primavera-estate e autunno-inverno degli italici dpcm (acronimo di Disastrose Coglionerie Per Manigoldi)

Che cosa è necessario?
E’ necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
 
A prescindere da quanto si è vissuto
il curriculum dovrebbe essere breve.
 
E’ d’obbligo la concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
 
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
 
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onorificenze senza motivazione.
 
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
 
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
 
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.
E’ la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.

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