Trapassato, l’ultimo lavoro di Filippo Tolentino

by Gianfranco Maselli

Interferenze illuminano il nostro cammino. La luce lampeggia lungo i finestrini, i posti migliori per accasciarsi e riprendere fiato durante un viaggio di ritorno lungo una vita intera. Tirare le somme con la testa contro il vetro, perdersi nei conti e rinunciarci ci ricorda che facciamo parte dei vivi.

Abbiamo fatto tanta strada, abbastanza da capire quanto i nostri passi affondino meglio nei chiaroscuri, quanto la risposta migliore ad un’esistenza permeata da una irrazionalità generale sia una non risposta, quanto le parole e la voce debbano sfuggire ai padroni, quanto Trapassato, l’ultima fatica di Filippo Tolentino in arte Tole, allo stesso modo non abbia bisogno di possesso, di troppe interpretazioni ma soltanto di una libertà estensiva che possa prolungarsi al di fuori del risultato finale, per lasciare nel fruitore tracce emozionali declinabili secondo possibilità innumerevoli.

La presente “recensione” è una di queste tracce, quella che si è estesa fino a giungere precisamente a me. Queste righe sono il risultato di una delle declinazioni emozionali possibili prodotte da un’esperienza audio-visiva di cui ho avuto modo di fruire in anteprima. A governarmi è il rifiuto di leggere attraverso il corto realizzato dal giovanissimo film-maker Pugliese, un rifiuto che sembra essere la stessa forza alla guida del lavoro di Tole, quasi un monito esistenziale e professionale.

Se, infatti, accasciati sui sedili posteriori del nostro iter noi tutti smettessimo, allo stesso modo, di chiederci quanta altra strada ci attende e sbriciolassimo gli argini che costringono, forzatamente, il nostro fluire mentale entro i fiumi impossibili della razionalità forse riusciremmo, finalmente, ad addormentarci.

È, infatti, in una bolla onirica che si ambienta il frutto del lavoro filmico di Tole, quella di un paesino rurale e quasi desertico dove una coppia di coniugi, interpretati da Anna Terio e Saba Salvemini, sta consumando un pasto altrettanto desolato in cui ci si scambia parole insoddisfatte e ricordi di un passato lontano e terribile.

Qui lo spettatore è subito costretto a scendere a patti con il linguaggio di Filippo Tolentino, abbandonando la consuetudine di interpretare ciò che ascolta e guarda e scegliendo, piuttosto, quasi di addormentarsi per seguire la narrazione che Lucia, la protagonista femminile attorno alla quale ruota l’intero corto, fa del suo confuso passato.

Mentre dormiamo, oltre le nostre palpebre mortali chiuse e lungo lo scivolo dei nostri occhi, ogni affluente interpretativo appare antico e sorpassato, come una stanza allestita di vecchi utensili erosi dal tempo, come l’antica cucina dove si consuma la scena iniziale di Trapassato che mostra, per un attimo, l’infanzia di Lucia trascorsa con la giovane madre e la nonna, interpretate da Maria Vittoria Tolentino e Carla Laera.

Qui l’intero spazio suda della consapevolezza di quanto le parole siano antiquate. È dolce abbandonarle tutte in una soffitta impolverata e dimenticarsele, a patto che la più antica e limpida rimanga fra le labbra della piccola Lucia: mamma.

Il suo presente adulto e i frammenti dell’infanzia passata ed oscura, che nel corto riaffiorano attraverso tremolii spaziali e soundscapes noise, sono il pretesto perfetto per risalire la corrente della nostra esistenza sino a quella origine che ci accomuna tutti. La prima spinta alla risalita consiste proprio nello stimolo lessicale mamma pronunciato da Lucia, la prima parola con cui si apre “Trapassato”, un varco narrativo che resta aperto per circa 20 minuti in totale.

Si tratta di una radice verbale ancestrale che mi ha commosso, una parola vicina al principio (e alla fine) di tutte le cose, come quella fonte materna grondante di emozione pura che ci attende arrivati a ciò che è la fine dello scivolo e, al contempo, l’inizio del nostro viaggio.

Tutto ciò che sgorga, come latte materno, da questa fonte si fa immediatamente torbido nel momento stesso del distacco dalla sua origine. Riflettendo sul creato, Filippo Tolentino ci suggerisce che ogni cosa si bagna inevitabilmente di artificiosità e ambiguità sin dal principio, come le parole e i ricordi che si consumano fra le labbra dei personaggi di Trapassato, scaturite tra l’altro da un processo di elaborazione tutt’altro che umano, una peculiarità che forse nasconde una grande similitudine.

I dialoghi del film, infatti, sono frutto di un processo di co-scrittura. Ad affiancare le mani di Tole c’è una macchina, una tecnologia di Deep Learning che ha processato centinaia di frammenti radiofonici attraverso un algoritmo, per inserirli in un contesto dialogico.

Potrebbe farci male renderci conto di non trovare ciò che stiamo cercando. Non c’è alcun tradimento nei confronti della nostra natura e dell’arte, soltanto un grande specchio con la nostra immagine dentro, come contro quel finestrino in cui crediamo di ammirare il paesaggio, quando invece ci guardiamo la nostra faccia riflessa, senza essercene accorti.

Guardiamoci davvero attorno per quanto ci è possibile, cercando di mantenere ancora gli occhi chiusi: ci sono forse elaborazioni nella nostra quotidianità che possano definirsi interamente inumane? Ogni cosa ha perso unità e purezza da molto tempo.

Per Tole quella che chiamiamo vita sembra essersi declinata de sempre esclusivamente nell’ambiguità, in un vociare doppio come quello dei due misteriosi personaggi osservatori del passato e del presente del paesino sassoso e pericolante dove “Trapassato” si ambienta. Ambigui sono anche i ricordi di Lucia, scossi dalle continue e sgranate interferenze che, negli istanti finali del corto, si distaccano dalla soundtrack per penetrare le difese dei due coniugi fino a creparle e a farle sanguinare.

Per lo spettatore non c’è alcun motivo valido per riaprire gli occhi. Non c’è alcuna salvezza da inseguire, soltanto il ricordo di un’origine lontana che riecheggia nelle nostre orecchie, dolce quanto il bianco nettare materno con cui le orecchie di Lucia vengono bagnate nella scena inziale, una sequenza che odora quasi di iconicità.

Noi ci resta che immedesimarci nella condizione dei personaggi di Trapassato. Anche per noi l’antico principio è impossibile da riafferrare prima che il viaggio di ritorno finisca ma è contemplabile nell’accettazione del nostro status: siamo viaggiatori stesi sui sedili posteriori della vita, viandanti che farebbero meglio a tener gli occhi chiusi per sognare tutto il tempo, piuttosto che chiedersi quanto la meta sia vicina.

C’è mica altra strada da fare? Meglio non parlarne, le parole sono vane.

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