“Il calcio non potrà ripartire dalle condizioni in cui era prima”. L’intervista a Matteo Marani

by Marilea Poppa

Dobbiamo restare a casa, questo è certo, e il ritorno alla normalità sembra ancora essere un miraggio. Mentre il governo tiene d’occhio la curva epidemica e ipotizza una possibile fase due, il mondo dello Sport si prepara a una ripresa che nel calcio italiano, a differenza delle altre discipline, sembra collocarsi approssimativamente intorno a fine maggio.

Una boccata d’aria per tifosi e appassionati, che forse si sentiranno risollevati da questa notizia. E gli altri Sport? Il torneo internazionale di Wimbledon (tennis) è stato rinviato, per la prima volta dopo il secondo dopo guerra, a Giugno 2021; anche il volley chiuderà l’anno senza alcuna assegnazione di titoli e, allo stesso modo, la federazione italiana di pallacanestro ha dichiarato concluso il campionato. Annullamenti, scadenze, contraddizioni: sono giornate concitate per il nostro Paese, che tenta faticosamente di intravedere uno spiraglio di luce nel buio disorientante della pandemia.

Per comprendere più approfonditamente come lo Sport stia affrontando la crisi e per tracciare una panoramica sulle dinamiche sportive, Bonculture ha intervistato il giornalista Matteo Marani, ex direttore e attuale Vice direttore di Sky Sport.

Direttore, partirei da un evento di cui si è molto discusso nelle ultime settimane: il match di Champions League tra Atalanta e Valencia, disputato il 19 Febbraio presso lo Stadio San Siro di Milano. La partita ha registrato una presenza di circa 40 mila bergamaschi che avrebbero ipoteticamente accelerato la fase di contagio da Covid-19. Si è compreso troppo tardi il pericolo?

Naturalmente nel giorno in cui si è disputata la partita non c’era ancora il grado di allerta e di preoccupazione che si è manifestato, purtroppo, nei giorni successivi. Quella sera nessuno ha pensato che il coronavirus potesse diffondersi, ahinoi, proprio in quella circostanza. Dalle ricostruzioni fatte a livello epidemiologico e sanitario si è scoperto che la partita è stata probabilmente un’occasione di trasmissione per via della vicinanza dei tifosi in viaggio verso San Siro. Dobbiamo certamente prenderne atto, ma non sento di poter muovere accuse per l’accaduto. Qualcuno di noi giornalisti, me compreso, ha avuto molti più dubbi e contrarietà relative alla settimana successiva in occasione del match Liverpool-Atletico Madrid giocato a porte aperte. Allora, almeno in Italia, si era cominciato a capire cosa stesse accadendo realmente.

L’UEFA sta premendo per la ripresa delle competizioni sportive e anche la Serie A potrebbe ripartire a porte chiuse, indicativamente a fine Maggio. Per gli allenamenti, invece, è stato stilato un protocollo speciale da parte della Federazione Medico Sportiva. Come commenta queste misure? 

Penso che prima venga la salute. La vicenda sulla ripartenza non dipenderà da nessuno di noi: né dalla FIFA né dall’UEFA, bensì dal Virus. Deciderà lui quando e come si ricomincerà e nessuno, se ripartiremo, potrà garantirci che non possa ripetersi anche un solo caso e che quindi possa esserci nuovamente uno Stop. Vedo che c’è comprensibilmente un desiderio forte di ripartire, di ricominciare considerando anche l’esigenza economica. Ogni volta che sono state poste delle date limite, queste sono state più volte posticipate. Quelle che sono state le discussioni a riguardo sono parole al vento, considerando il “dominus” del virus che è superiore a tutti i piccoli calcoli possibili. E’ difficile, quasi impossibile anteporre l’aspetto sportivo a quello sanitario.

Numerose piccole e medie società, però, non dispongono di strutture adeguate per il rispetto delle disposizioni emanate.

Purtroppo questo è un problema insormontabile. Alcune realtà delle serie inferiori possiedono strutture minime e non hanno la possibilità di fare controlli o tamponi che invece la serie A può garantire. Questo si riflette anche nel rapporto tra calciatori: gli atleti di serie C sono in cassa integrazione, mentre quelli di serie A per ora hanno subito solo una decurtazione del proprio stipendio. Parliamo di cifre in rapporto, in alcuni casi, di uno a mille. Un discorso che va affrontato necessariamente, secondo me, è quello della focalizzazione sull’aspetto della tutela e della salvaguardia della salute delle persone. Le società devono mettere in sicurezza tutti i lavoratori, dagli atleti ai tecnici, visto che si tratterà di un lungo processo. Il senso di responsabilità deve guidare i club.

La situazione attuale è stata paragonata a uno scenario bellico. Sono riscontrabili interruzioni avvenute nei campionati per circostanze, in qualche modo, analoghe?

Non credo vi siano precedenti salvo per due campionati: il primo, interrotto nel 1915 a causa del conflitto bellico e il secondo nel 1943, sospeso per la stessa ragione.  Siamo, di fatto, di fronte alla prima pandemia dei tempi moderni dopo la spagnola, non è possibile tracciare un parallelismo tra queste situazioni.

Contrariamente al mondo del calcio, gli altri sport sono fermi: è stato posticipato il torneo di Wimbledon per la prima volta dopo il secondo dopo guerra (non accadeva dal 1945), il basket e la pallavolo non hanno indicato date per la ripresa. Questo episodio sembra marcare una distinzione: esistono atleti di serie A e di serie B?

Questa è una domanda che si fanno in molti. La spiegazione che mi do è che, per come sono strutturati gli altri sport, forse il torneo di Wimbledon, e sto estremizzando, può sopportare di saltare anche un anno. Il calcio, che vive di costante emergenza e che già in un quadro di normalità appare in affanno, non può permettersi di rinunciare a giocare. Se questa stagione non si conclude, temo che diversi club di serie A spossano saltare in aria, proprio perché il calcio italiano, già in precedenza, non era capace di auto sostenersi in maniera sana e oculata. Il calcio italiano in questi anni ha arricchito all’infinito agenti e giocatori, impoverendosi da sé. Questo perché i presidenti hanno pensato, anziché a costruire società solide, a mettere su squadre per vincere i campionati o per salvarsi.

Per atleti e tecnici è stata prevista una decurtazione degli stipendi. Dopo questa pandemia, ci si può aspettare anche un cambiamento nelle cifre che gravitano attorno a queste figure?

E’ difficile prevederlo. Penso che questa crisi, in generale, porterà inevitabilmente ad un abbassamento delle cifre a cui siamo abituati. Qualcuno stima che ci sarà un calo della ricchezza addirittura del 30%. Questo ridimensionamento si verificherà anche nel mondo del calcio, che non è esente. Ho detto e scritto che il calcio non potrà ripartire nelle condizioni in cui era prima: uno sport già profondamente malato. Il calcio italiano è indebitato e sino ad ora si è tenuto su unicamente grazie ai diritti televisivi e alle plusvalenze; non ha saputo sviluppare le famose alternative commerciali, non ha fatto marketing o merchandising. Abbiamo degli impianti impresentabili e impraticabili. Tutto questo ha fatto sì che il calcio prendesse un colpo molto duro. E’ come una metafora: quando colpisci un corpo già debilitato, come accade con le persone, il virus fa più male. In questo caso il virus ha colpito un corpo che era già molto debilitato.

 Restare a casa, per tifosi e appassionati, potrebbe essere un buon motivo per valorizzare quegli aspetti dello sport che sono meno conosciuti o seguiti. Lo storytelling sportivo potrebbe essere un esempio?

Il termine storytelling va molto di moda, anche se a me non piace questa definizione (ride). La ricostruzione storica di personaggi e fatti dello sport è sempre una grande fonte di interesse e di cultura. Peraltro i numeri dimostrano che questo segmento ha un suo seguito e chi è immerso nel presente viene affascinato dal passato, dalla storia e da ciò che non conosce. Nella storia, in generale, ci sono tanti aspetti che non si conoscono. Soprattutto con l’ausilio delle immagini c’è una possibilità ancora maggiore di raccontare lo Sport. In questo momento, non essendoci eventi sportivi da seguire, mi sembra una scelta obbligata per molti.

Lei è solito condurre ricerche approfondite per raccogliere testimonianze e costruire racconti. Come sta gestendo la ricerca in questo periodo di lockdown?

Sì, sto lavorando a un nuovo progetto, per un nuovo story che vorrei riuscire a realizzare non appena la situazione si sistemerà. La ricerca è un lavoro che va svolto sul campo: il problema sono gli archivi, ai quali al momento non posso avere accesso. Sto cercando dei documenti che purtroppo non riesco a reperire per via della mancanza di archivisti che possano aiutarmi. Mi sto occupando di un tema assai complicato, quindi nel frattempo sto cercando di dedicarmi allo studio e alla lettura.

Quando la pandemia sarà finita come cambierà, secondo lei, la comunicazione? Quali saranno le difficoltà da fronteggiare?

Cambieranno tante cose, anche nella comunicazione. Credo che questa vicenda accelererà ulteriormente un processo che era già nato, quello della digitalizzazione. Questi giorni ci hanno abituato ancora di più a fruire via rete dei contenuti e credo che, seppur questo paese sia molto recalcitrante e conservatore, si abituerà al cambiamento. Il processo di smart working, di lavoro in autonomia, provocherà un cambiamento nella concezione del lavoro stesso. Quanti telegiornali sono stati condotti da casa? Non escludo che si possa continuare ad avere questo tipo di apporto. Una volta c’era il dogma che si dovesse fare le cose necessariamente in studio, adesso si è aperto un nuovo fronte.

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