Quel segno inconfondibile di Ciriaco De Mita

by Micky De Finis

La morte di De Mita ha riproposto nei giorni andati appassionate analisi di un pezzo di storia del nostro Paese, sicuramente ancora significativo perché presenta molti aspetti in parte inesplorati, talora licenziati con superficialità.

Invece ho letto ed apprezzato  il particolare acume descrittivo del suo pensiero con cui Fabiano Amati su Huffingtompost ed Enrico Ciccarelli per Bonculture  hanno cercato di tracciarne il profilo, a me pare, parecchio aderente al ruolo e all’influenza stessa che De Mita ebbe  nelle dinamiche politiche italiane e nella Democrazia Cristiana.

Il mio ricordo di Ciriaco De Mita è legato all’esperienza che ho vissuto in quel partito cui approdai giovanissimo, dopo un breve percorso tra le fila della gioventù liberale.

La mia militanza della Dc fu marcata  da Forze Nuove e dal fascino irresistibile di Carlo Donat-Cattin, storico avversario di De Mita. Tra le correnti dello scudo crociato quelle della Base e di Forze Nuove erano le più attive e rumorose nel dibattito interno sempre molto fecondo soprattutto nel movimento giovanile democristiano.

Fu questa  mia appartenenza forse, anzi certamente la ragione vera di una mia distanza probabilmente preconcetta verso un personaggio che aveva, devo dire, molta dimestichezza con la gestione del potere interno di un partito che  avvertiva la necessità di cambiar pelle.

Il punto è che la sinistra sociale era guidata da un Donat-Cattin sempre fuori dal coro, mentre De Mita riusciva ad articolare intorno a se una “ corale vicinanza” che gli permise di scalare la vetta del Partito sino a condurlo alla guida del Governo del Paese. 

In Puglia e a Foggia pesava non poco questo stigma . Ricordo le discussioni aspre con Ermanno Sica e quelle più miti con Biagio Dimuzio e Vitale, tre basisti che avevano insieme a Pandiscia un ruolo importante nella corrente demitiana pugliese. Ma io ne uscivo sempre rafforzato dall’idea di rimanere dov’ero perché gli amici di De Mita, almeno in Puglia e ancor di più nell’Irpinia, davano sempre la sensazione di essere come un mondo a parte, un luogo del pensiero unico.

Donat-Cattin era diverso. Lui aveva un carisma particolarissimo che riusciva a riflettere la necessità di andare sempre oltre le diatribe interne e le lotte di potere, in quel tempo molto accese.

La vicinanza alla Cisl di Franco Marini, ma anche al gruppo denominato Terza Fase ponevano Forze Nuove sempre in una posizione distinta e distante dagli apparati demitiani anche quando le cose, i ragionamenti si sfioravano. Allora funzionava così.

Ho incontrato Ciriaco De Mita molte volte. E ricordo che quando ci parlavo era solito scrutare nello sguardo con un marcato distacco che intimidiva, salvo poi aprire discorsi che mi sembravano fumosi, ma che nella sostanza, questo lo capii dopo, era la sua maniera originalissima di catturare l’attenzione con quell’esercizio infallibile della sua  “pedagogia della complessità”, per dirla con Enrico Ciccarelli, espressione che fotografa in pieno l’uomo, il personaggio che indubbiamente rappresentava.

Ho ancora ben impresso nella mente un suo intervento a Saint Vincent, dove ci riunivamo ogni anno, nel mese di ottobre. Era lì che Forze Nuove chiamava a raccolta nel Centro Studi Donati i giovani democristiani. 

Correva l’anno 1989. Venne lì dopo tre anni di assenze permalose per tentare un accordo con Donat-Cattin che non gli dava tregua. Le cose non finirono bene perché Donat-Cattin, nel suo Diario di Bordo in cui si firmava Nostromo, lo fece nero.

Poi l’evoluzione delle cose portarono i due a siglare una sorta di pace armata. Ma le differenze rimasero profonde più che altro sulla concezione del ruolo dei cattolici democratici in quel momento delicato che il Paese attraversava.

Molti anni dopo arrivava “il ritorno al futuro della Dc” con il Partito Popolare. 

Lo ritrovai a Chianciano. Le distanze con i forzanovisti  si erano attutite molto, grazie anche all’incessante mediazione di Gerardo Bianco, un vero nobiluomo.

De Mita mi chiese di adoperarmi per spostare alcuni delegati di Foggia sulla  sua mozione. Confesso che provai a capirne le ragioni, ma poi decisi di non prestarmi. Lui mi trattò malissimo. La notte ottenne comunque quel che voleva perché riusci a far breccia in Angelo Cera, cose all’ordine del giorno.

L’ultima volta che lo vidi fu ad Orsara di Puglia qualche anno fa. Eravamo in pochi. C’era anche il bravo Virgilio Caivano. De Mita aveva già novant’anni, ma portati benissimo. Andammo a pranzo da Peppe Zullo. Era lucidissimo, per una volta lo trovai persino simpatico, istrionico. 

Il tempo sembrava essersi fermato in quel suo portamento austero, sempre trionfante. 

Indimenticabile quel giorno una sua battuta a punta secca che ho fissa nella mente. Si parlava delle difficoltà che si incontravano per rimettere in campo una forza di centro, moderata ed interclassista . Ma il tempo trascorreva senza approdi di una certa concretezza.

Lui, ascoltava. Ci guardava. Poi, quasi serafico, disse “ vedete amici carissimi, quando  l’indice delle difficoltà è elevatissimo, il massimo della velocità consentita è star fermi”! 

Poi lo accompagnai alla macchina e lui  mi lasciò con un sorriso al limone. 

Credo di non essergli mai piaciuto. Anzi ne sono certo, ma non per questo posso mitigarne la grandezza che è palmare.

Lui predicava una soluzione orizzontale opposta alla concezione verticale sulla quale  spingevano i socialisti di Craxi. Ma arrivò ad affermare questo postulato solo dopo essere stato spodestato da Donat Cattin che aveva stretto un patto di necessità con Andreotti e Forlani.

Difficile dire oggi chi avesse ragione. Forse bisognerebbe chiederlo ad Arnaldo Forlani, che con i suoi 96 anni rimane ancora l’unico testimone vivente di quella storia.

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