«E’ importante imparare a gestire le emozioni negative, riconoscerle e lasciarle andare». La psicologa Annamaria Petito spiega i danni del covid

by Michela Conoscitore

Riguardo agli effetti del Covid-19, si è parlato ampiamente di come il patogeno impatti sull’organismo umano ma non sulla mente. Molto spesso si tende a dissociare corpo e mente, dimenticando che in realtà sono un tutt’uno e la ripresa fisica del paziente dipende molto anche dal suo stato di salute mentale. Ecco perché i programmi di follow-up delle varie strutture sanitarie nazionali si stanno prendendo cura anche di questo aspetto perché la peculiarità della malattia, e della situazione a cui dà origine, basti pensare all’isolamento e all’impossibilità del contatto con i famigliari, sono in grado di stravolgere equilibri psicologici molto delicati, e polverizzare certezze che prima il soggetto riteneva granitiche.

Il progetto Riuniti e mai soli degli Ospedali Riuniti di Foggia sta supportando gli ex degenti Covid nel loro percorso di rinascita dopo il superamento della malattia: per comprendere tutte le fasi di questo ritorno alla normalità, bonculture ha intervistato la professoressa Annamaria Petito, psicologa del progetto che sta accompagnando i pazienti nella loro ripresa psico-fisica.

Quali sono i disagi più pesanti che i pazienti Covid si trovano a fronteggiare dal punto di vista psicologico?

Le persone che vivono l’esperienza stressante, e talvolta traumatizzante, del contagio da SARS-CoV-2 e della manifestazione dei sintomi della malattia Covid-19, devono fare i conti con sensazioni di incertezza ed emozioni quali ansia e paura per un periodo piuttosto lungo (dal momento in cui apprendono la notizia del contagio fino al momento della guarigione). Inoltre, per le persone per cui è stata necessaria anche l’ospedalizzazione, si aggiungono emozioni di maggiore smarrimento a causa della drammaticità dell’esperienza sanitaria inedita e del persistente timore per la propria sopravvivenza.

I pazienti Covid sperimentano l’isolamento e l’impossibilità di ricevere vicinanza, conforto, rassicurazione e supporto da parte dei propri familiari o amici in una fase di vita caratterizzata da grande grande stress psicofisico. Tali condizioni aumentano la vulnerabilità emotiva degli stessi, predisponendoli a disagi psicologici e talvolta a disturbi psichiatrici. La solitudine e l’avere “troppo” tempo a disposizione favorisce la noia ma anche una particolare attività del pensiero, come per esempio la ruminazione (sulle cause del contagio, sul timore di non guarire), provocando o mantenendo uno stato ansioso-depressivo. Talvolta, si può osservare anche un cambiamento dell’immagine e percezione di sé, specificatamente per la credenza sulla propria vulnerabilità fisica e psicologica, che spesso porta a sperimentare emozioni quali tristezza, vergogna e rabbia.

Si può parlare di disturbo post-traumatico?

Nonostante la pervasività di tali condizioni psicofisiche, non tutti i pazienti presentano sintomi cogniti, emotivi e comportamentali sovrapponibili ad un Disturbo dell’Adattamento o in un Disturbo Post Traumatico da Stress (DSM-5). Dinanzi ad una situazione di forte stress psicofisico, non tutti i pazienti reagiscono allo stesso modo, o hanno a disposizione le stesse risorse psicologiche. In generale, in fase di ricovero ospedaliero, è molto più frequente incontrare pazienti che presentano una sintomatologia ansioso-depressiva che potrebbe rientrare in seguito alle dimissioni, ma potrebbe anche persistere ed esitare in disturbi più strutturati quali appunto un Disturbo Post Traumatico da Stress.

Dopo l’isolamento, il ritorno ad una vita normale e alla quotidianità è faticoso per loro?

Ritornare alla vita normale dopo un lungo periodo di isolamento familiare e sociale a volte richiede tempo e gradualità ed è un processo variabile per ciascun individuo. Sicuramente l’aspetto della vulnerabilità individuale è innegabile. In quest’ottica può essere utile ripescare dalla memoria di vita personale quelle abilità e competenze che in passato hanno aiutato gli stessi pazienti a fronteggiare situazioni difficili e che risultano essere molto utili anche in questa fase di vita. Tuttavia, risulta essere importante ripristinare una normale routine quotidiana in qualche modo prevedibile: rientrare a lavoro, ricoltivare hobby ed interessi lasciati in sospeso, ristabilire le relazioni sociali significative.

Il sostegno sociale è un importante fattore di protezione. Potrebbe altresì essere utile progettare un piano di self-care, ossia programmare attività piacevoli per prendersi cura di sé stessi in ogni singolo momento. Risulta essere molto utile, imparare a gestire situazioni stressanti, attraverso un atteggiamento costruttivo, cercando di riorganizzarsi, di essere aperti dinanzi alle opportunità che la vita può offrire, anche quelle negative.

Quali sono i suggerimenti che state dando per supportarli in questo processo?

Ciò che suggeriamo è di cambiare prospettiva e cercare di avere un pensiero più flessibile e positivo, facendo leva sulla resilienza, cioè la capacità di resistere alle avversità del momento, riconoscendone le difficoltà ma senza scoraggiarsi. Invitiamo i nostri pazienti a riorganizzare la propria vita a partire dai punti di forza, a ricostruire il presente, nonostante le difficoltà, cercando di vedere e cogliere ogni opportunità.  Questa capacità permetterà loro di ritornare alla vita quotidiana rinforzati e trasformati. Inoltre è importante imparare a gestire le emozioni negative, comprendendo prima di tutto a riconoscerle per quello che sono (per esempio “mi sento triste”) e poi provare a lasciarle andare, senza tentare di risolverle, nasconderle o controllarle. In questi casi è utile utilizzare semplici tecniche di rilassamento, come ad esempio concentrarsi per alcuni minuti su un respiro di tipo lento e regolare. In generale è raccomandabile mantenere un atteggiamento positivo come strategia di self-help e ricordarsi che non si è soli, ma inseriti in un sistema che può aiutare emotivamente e psicologicamente.

Ci sono storie che l’hanno particolarmente colpita? Può raccontarcene qualcuna?

Ciascun paziente mi ha consegnato una storia toccante, originale e speciale per gli intensi vissuti esperiti sia durante la degenza ospedaliera sia nel periodo post dimissioni. Tuttavia ho il ricordo vivido e di grande trasporto emotivo della forza e determinazione di una giovanissima donna ricoverata per oltre due mesi. Nonostante i momenti di grande sconforto a causa delle condizioni organiche, la paziente riusciva a trovare sempre strategie idonee per fronteggiare quotidianamente i costanti pensieri negativi, che prepotentemente cercavano di intrudere nella sua mente e che contribuivano ad implementare la sua sofferenza psicofisica.

Però, di più grande fascino è stato osservare il suo smagliante, bellissimo sorriso, la sua visibile commozione, e la sua tangibile voglia di ritornare a “vivere come sempre” in seguito alla notizia di negativizzazione del tampone; è ciò che di più bello conservo di questa terapia.

Un’altra esperienza terapeutica molto faticosa ma terminata con grande successo dopo alcuni mesi, è stata caratterizzata dalle grosse difficoltà incontrate da un paziente nel tornare alla quotidianità, e soprattutto, al lavoro in fase post Covid-19. L’esperienza di sofferenza del paziente a causa dell’intenso e costante timore di reinfettarsi ed infettare i componenti della sua famiglia ha ritardato molto il ripristino della serena quotidianità aggravata da manifestazioni psicofisiche quali scarsa concentrazione, cefalee, insonnia, algie diffuse, che da letteratura vengono riconosciute come sintomatologia “post-covid”. Attualmente il paziente gode di una discreta salute psicofisica, ma soprattutto la sua attuale esperienza lavorativa è caratterizzata da una riorganizzazione costruttiva sia delle relazioni interpersonali, sia dalla più elevata professionalità acquisita grazie al superamento di un importante e lungo periodo di sofferenza trasformato in opportunità di benessere anche lavorativo.

Per uno psicologo quale approccio è preferibile seguire nell’aiutare pazienti con queste problematiche?  

Validazione, empatia, comprensione e vicinanza emotiva sono elementi fondamentali alla base di ogni approccio terapeutico. In generale, è importante effettuare una prima fase di assessment che consenta di creare una buona formulazione del caso al fine di comprendere bene la sofferenza del paziente e strutturare l’intervento più idoneo. L’approccio cognitivo-comportamentale offre protocolli di trattamento mirati ad affrontare i sintomi psicologici conseguenti a situazioni stressanti e traumatizzanti con interventi specifici ed evidence based. Ad ogni modo l’aspetto centrale in ogni terapia è la strutturazione di una buona alleanza terapeutica, che permetta al paziente di sentirsi al sicuro e rispettato all’interno di in uno spazio accogliente e di collaborazione paritetica.

Da terapeuta sta sperimentando sulla sua pelle un maggior coinvolgimento emotivo assistendo questi pazienti?

Indubbiamente devo fare i conti con uno sconvolgimento, sia umano che emotivo, dovuto all’imprevedibilità ed incontrollabilità della pandemia. Mi devo confrontare con qualcosa di inedito, rivedo continuamente modalità e strategie terapeutiche a mia disposizione. Solo per portare alcuni esempi, ho dovuto rivedere il setting terapeutico (distanza di sicurezza, dispositivi di sicurezza, modalità online), ho adottato nuove modalità comunicative (uso della mascherina e relativa difficoltà di comunicare con il non-verbale e para-verbale). Ancora più impegnativo risulta essere il confronto con pazienti particolarmente spaventati e sofferenti. Talvolta mi è capitato di provare sentimenti di impotenza e di sconforto, ma dopo un primo iniziale momento di necessaria accettazione, mi sono adoperata per organizzare nella maniera più congeniale gli interventi psicoterapeutici facendo leva sulla validazione delle emozioni esperite dai pazienti e sulla condivisione “non sei solo”, “non sei sola” come risorsa preziosa e fonte di grande supporto psicologico.

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