«Restiamo fermi, nel nostro nido, a covare la nuda vita al solo scopo di sopravvivere». A colloquio con lo psichiatra Piero Cipriano

by Felice Sblendorio

I risvolti psichici della pandemia, forse, erano già con noi: il covid-19 ha solamente esacerbato in maniera estrema i tratti di una società fondata sulla stanchezza di sé e su una profonda depressione. Lo si pensa in maniera puntuale leggendo il “Il libro bolañiano dei morti” (Milieu Edizioni, 176 pagine, 16.50 euro) di Piero Cipriano, psicoterapeuta, psichiatra basagliano, psico-farmacologo critico e autore di una trilogia della riluttanza in cui racconta la debolezza della cultura psichiatrica dominante.

In questo saggio, a metà fra l’esperienza personale e la narrativa, Cipriano racconta l’anormale quotidianità che abbiamo vissuto – e ancora viviamo – prima, durante e dopo i primi mesi dell’emergenza, tratteggiando la partitura di una danza macabra che, sotto il segno del virus, ha riportato in superficie un tema sottratto e nascosto dal dibattito pubblico: la morte. La pandemia, come riflette l’autore, ci ha riportati alla condizione comune di organismi perituri. Alla nostra finitezza, alla prossimità con il senso di colpa, all’incertezza nei confronti della scienza che, per troppo tempo, e illudendoci della sua infallibilità, abbiamo considerato come un fede, come una religione sacra. bonculture ha intervistato Piero Cipriano.

Dottor Cipriano, in questi suoi esercizi di ego dissoluzione parla molto di morte e di morti. La morte, causa covid-19, è ritornata prossima alla nostra esperienza?

Innanzitutto, tengo a precisare che l’esercizio di ego dissoluzione non ha riguardato solo me. Tutti all’improvviso, nei mesi di marzo e aprile, sono stati precipitati nella dissoluzione della propria sicurezza di essere al mondo. I fenomenologi la chiamano wahnstimmung, un’atmosfera da fine del mondo, o da fine dell’Io, condizione simile a chi (insegna Il libro tibetano dei morti) sta per morire e si trova nella dimensione di Bardo. Nostro malgrado, una società che dal secolo dei lumi si era avviata verso le certezze della scienza e della medicina, ora dall’incertezza della scienza e della medicina viene atterrita. E scopre che si muore: solo che non ci ha fatto i conti, con la morte. E qui c’è Montaigne: “Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. Saper morire ci libera da ogni soggezione e da ogni costrizione”.

Bolaño in “Letteratura + malattia = malattia” scriveva: «Ma tutto prima o poi arriva. Arrivano i figli. Arrivano i libri. Arriva la malattia. Arriva la fine del viaggio». La malattia è arrivata e lei sostiene che la medicina, l’ultima religione del nostro tempo, abbia avuto difficoltà a comunicare la morte. Un cortocircuito?

Bolaño scrive questo brano nelle ultime settimane prima della sua morte, quando lo sapeva di essere nel Bardo. Senza generalizzare, perché vi sono le eccezioni, ma la medicina è centrata sulla vita, sull’obiettivo della guarigione, della salute (ammesso di sapere cosa sia), perfino dell’accanimento terapeutico, talvolta. Oggi poi, che la medicina governa la politica, la salute da diritto è diventata un dovere. Un obbligo. La medicina con la morte non ci sa fare. La morte spaventa i medici. Possiamo anche immaginare che questo sia un problema peculiare dei medici, che dietro la scelta di studiare medicina ci fosse, a monte, un problema con la morte, e dunque un tentativo di trovare una risposta o una rassicurazione alla morte, ma che la pratica della medicina non ha risolto. Soprattutto la pratica di una medicina occidentale diventata vieppiù organicista e biologista, poco attenta agli aspetti olistici, per così dire. Basti pensare alla difficoltà che molti medici hanno nel comunicare la morte.

La seconda ondata, che in questo libro si accenna, da alcuni mesi è realtà. In questa gestione, secondo molti, le istituzioni hanno puntato più sulla colpa che sulla responsabilità dei cittadini. Condivide?

Già nella prima ondata erano stati individuati vari capri espiatori per operare una puerile distrazione di massa, ovvero stornare l’attenzione dalle responsabilità politiche ai cittadini. Ricordate i runner? I passeggiatori? Chi osava raggiungere una spiaggia o un parco o un bosco? I droni che li inseguivano? Gli slogan #devistareacasa? Il messaggio era: se l’epidemia peggiora la colpa è del cittadino trasgressore. Invece no. Il runner era uno che si prendeva cura della propria salute invece di restare a casa a mangiare e aumentare di peso. Stare all’aria aperta fa bene. La principale difesa dal virus è il sistema immunitario, che si rinforza uscendo, non segregandosi in casa. Ma servivano i capri espiatori perché c’era, a monte, una chiara responsabilità politica. Un piano pandemico vecchio, aggiornato al 2006, che ha esposto gli operatori sanitari, nelle prime settimane, all’improvvisazione e al contagio; uno sciagurato indebolimento del SSN, con chiusura di piccoli ospedali, depauperamento della medicina generale e territoriale, aziendalizzazione delle ASL consegnate a manager che hanno ridotto il SSN italiano, uno dei migliori al mondo, in un colabrodo: questo ha favorito l’epidemia.

Nelle cronache e nella narrazione di questa pandemia i disturbi psichici hanno ricevuto poca attenzione. Questa condizione di totalità domestica e d’incertezza globale cosa ha prodotto?

Salute è, secondo l’OMS, uno stato di benessere fisico psichico e sociale. Il lockdown è stato attuato per salvaguardare il benessere fisico (impedire contagi e malattia) nel disinteresse, tuttavia, del benessere psichico e sociale. È miope affidarsi a un comitato tecnico scientifico in cui dominano epidemiologi e virologi, che si occupano di limitare la diffusione del contagio e dei morti. Senza tener conto del numero di persone la cui vita sarà distrutta dal lockdown, e dalla chiusura di molte attività lavorative. Una chiusura che non era inevitabile se ci fosse stato un servizio sanitario efficiente in grado di sopportare l’onda epidemica.

Nel lockdown, complice anche l’instabilità della diffusione del virus e la precarietà fragile del nostro presente, sono aumentati i livelli di ansia, depressione e sintomi legati allo stress. Il virus ha smantellato un finto controllo personale, sociale e politico delle nostre vite?

Eravamo ingaggiati in una vita di corsa, chi più chi meno assolveva al proprio imperativo di prestazione che gli consentiva di guardare avanti senza mai fermarsi a pensare. All’improvviso ciò che sostanziava le nostre esistenze, dal lavoro allo studio allo svago allo sport alla socialità, non si è potuto più fare. Quel che resta – dice l’ostracizzato Giorgio Agamben – è nuda vita. Vita spogliata di tutto. Restiamo fermi, nel nostro nido, a covare la nuda vita al solo scopo di sopravvivere. Intanto fuori c’è un info-virus che quotidianamente martella: numero di contagiati, numero di morti. È il minimo, manifestare ansia, depressione, panico, somatizzazioni. Non sediamole subito coi farmaci. È il segno che siamo – ancora – umani, non già androidi.

Non sembra sia questa la direzione: secondo la Società Italiana di Psichiatria le farmacie hanno aumentato del 35% le dotazioni di ansiolitici e ipnotici e del 28,2% di antidepressivi. Si temono 300 mila nuovi casi nei dipartimenti di salute mentale. Una risposta a questa problematica basata solamente sulla somministrazione di psicofarmaci è dannosa?

La Società Italiana di Psichiatria prende atto dei numeri ma poi in concreto, a parte farmaci e psicoterapie via Skype, non ha proposto granché per fronteggiare l’emergenza di disturbi da pandemia. Avrebbe fatto meglio a farsi sentire, durante i lockdown, e a permettere alle persone già sofferenti di ansia, di depressione, di panico, eccetera, di uscire, prendere aria. Invece si è limitata a dire, anche lei, state in casa. Già anni prima di questa catastrofe mi ero pronunciato, rispetto all’uso a pioggia di psicofarmaci, usando l’espressione di manicomio chimico, ovvero un controllo della sofferenza non più con l’internamento in luoghi di pseudo-cura ma con i legacci molecolari. In questi mesi il manicomio chimico è dilagato, e si associa se vogliamo a quella forma di manicomio domestico che abbiamo tutti vissuto nelle settimane del lockdown estremo: l’abitazione come istituzione totale dove tutta la vita si svolge: lavoro studio sonno svago cibo sesso. La psichiatria ha avallato, col suo silenzio, un ritorno all’istituzionalizzazione e alla nuda vita.

Per alcuni suoi colleghi questa condizione di sospensione sta aiutando tutte quelle persone che hanno difficoltà ad affrontare il mondo. Crede che questa sovrapposizione di sofferenze private e collettive aiuti la nevrosi?

Paradossalmente, alcuni sofferenti psichici, i più gravi, non i nevrotici di cui dicevo prima, potrebbero essersi perfino giovati della chiusura. In effetti è accaduto che tutti abbiamo vissuto una limitazione della possibilità di essere nelle relazioni, di fare comunità, una limitazione del koinos kosmos, di stare nel mondo condiviso. Per cui le persone che, già prima, vivevano al chiuso del proprio idios kosmos, in un mondo personale staccato dal mondo comune, non hanno risentito granché di questa chiusura, del distanziamento fisico o sociale, perché questa era già prima la loro condizione naturale, starsene a parte, staccati dal mondo, come protetti da un vetro. Siamo noi, i cosiddetti normali, che in questi mesi abbiamo sperimentato la condizione della persona che si sottrae al mondo. Ecco: stiamo sperimentando cosa significa vivere nella dimensione esistenziale che gli psichiatri definiscono psicosi. In questo momento storico il 99% della popolazione sperimenta ciò che di solito vive l’1%.

In questo libro parla di due modelli di gestione della pandemia: quello biopolitico e quello psicopolitico. Il modello europeo è in netto contrasto con il vincente (ma poco democratico) modello asiatico. Teme una cinesizzazione dell’Occidente?

Quello psiocopolitico di controllo delle menti, asiatico, sembra aver stroncato sul nascere l’epidemia. A differenza del modello biopolitico europeo che, nonostante i lockdown, non ne viene fuori. Eppure, a pensarci bene, non siamo così lontani, anche noi, dal modello cinese. La macchina algoritmica che grazie a smartphone, carte di credito, social network incamera i nostri dati, ne sa più di noi ormai: è il nostro vero inconscio. Un inconscio algoritmico. L’Occidente è già asiatico, solo che non se n’è accorto. Viveva, fino alla pandemia, nell’illusione di essere una democrazia. La pandemia ha soltanto accelerato la presa di coscienza di ciò che il futuro ci riserva.

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