Il sistema degli antisistema

by Enrico Ciccarelli

Dopo alcuni mesi di coma profondo, il discorso pubblico della città di Foggia fa registrare qualche novità, dovuta sicuramente, in parte, al fremito emozionale e civico che è seguito alla tragica morte di Camilla Di Pumpo. Vicenda che ha destato molte reazioni diverse, come è giusto che sia; ma ha anche riportato all’onore del mondo una parola negletta e vituperata. La parola “politica”.

Lo ha fatto, tramite una bella intervista, il vicepresidente dei deputati dem Michele Bordo, che ha lanciato la candidatura a sindaco di Foggia di Daniela Marcone, un’altra vicepresidente, però di Libera. E lo ha detto apertis verbis Pippo Cavaliere, il candidato soccombente contro Landella alle Comunali del 2019: se l’indignazione civica non si traduce in proposta, se le centinaia di piazza Cesare Battisti non scenderanno in campo, non si sporcheranno le mani, qualunque speranza di rinascita e di riscatto sarà vana.

Un collega, in un lungo editoriale audiovisivo nel quale ha persino scherzosamente citato Goebbels, ha però eccepito sulle intenzionalità politiche che a suo parere non devono contaminare la spontanea mobilitazione delle coscienze, in quanto non si deve strumentalizzare una tragedia a sostegno delle proprie ambizioni (cosa che naturalmente ci trova d’accordo; ma sembra –per l’appunto- un ingiustificato processo alle intenzioni).

Il cuore di questo articolato commento consisteva tuttavia in una aspra reprimenda alla professoressa Donatella Curtotti, la docente di Unifg colpevole di avere parlato in un post su facebook di una contrapposizione tra la Foggia sana e quella malata. Anche qui, le possibili false piste su cui ci conduce questa distinzione hanno destato perplessità anche in chi scrive. Ma ho troppo rispetto per una persona di quel livello per leggere il suo dire in una accezione manichea, a mo’ di una lavagna dei buoni e dei cattivi.

Il tema vero sta tuttavia in una accezione più complessiva: la presunta Foggia perbene altro non sarebbe che parte altolocata per ceto e per censo di un partito unico e trasversale della spesa pubblica. Dei predatori in guanti bianchi dissimili solo per modi, e non sempre, da quelli in tuta da lavoro o in coppola da malavitoso. Tutti protagonisti di un trentennale saccheggio senza qualità, le cui contraddizioni, a Foggia come in tutto il Sud, sono esplose per l’affievolirsi dei flussi assistenziali di danaro e risorse.

Naturalmente anche al polemista vanno concesse le attenuanti dialettiche: esprimere un’idea forte e radicale comporta quasi inevitabilmente un eccesso di schematismo. L’unico possibile esito di questo ragionamento è però una sorta di culto della palingenesi: essendo la madre di tutti i mali nel sistema, dobbiamo affidare il nostro futuro solo a chi non ne ha mai fatto parte, chi non si è mai cimentato, chi non si è “sporcato le mani”, per dirla con Cavaliere.

È un’idea rispettabile quanto impraticabile. Perché il culto degli homines novi finisce regolarmente per risolversi in un peggioramento, a volte clamoroso, delle proposte e delle scelte; perché non c’è palingenesi o apocalissi che non sfoci in una regressione, talora ridicola, talora crudele. Direi che Foggia è un caso di scuola del miserando esito di spallate antisistema che difficilmente avrebbero potuto essere più radicali.

Ad essere viziata è la premessa: il “sistema”, sul piano logico non è altro che la notte hegeliana, in cui tutte le mucche sono nere. È un semplificato ottundimento della ragione, una fuga nel sogno che impedisce quella fondamentale attività della critica che è la distinzione, l’analisi specifica, l’approfondimento. Può servire a strappare qualche applauso ai sanculotti da tastiera e al loro desiderio di espugnare una qualche Bastiglia restando comodamente seduti in poltrona; ma è disfunzionale a qualunque progettualità provvista di senso.

È invece ampiamente funzionale, dal mio punto di vista, a buttare la palla in tribuna, a chiudere l’orizzonte e il respiro del confronto, a trasformarlo in rissosa malevolenza su chi abbia fatto parte del Sistema e chi no. Cosa che in ultima analisi finisce per occultare le responsabilità di chi ha venduto l’anima al diavolo per invocare un generico autodafé, un indistinto lavacro penitenziale. Il problema non è, nell’Inferno in cui ci sentiamo precipitati, provare a indossare i panni di Minosse per toglierci quelli di anime dannate. È che dall’Inferno dobbiamo uscire. A meno che non ci piaccia.

(la foto di copertina è di Monica Carbosiero)

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