Maria Grazia Barone e le piccole crudeltà del giornalismo

by Enrico Ciccarelli

Torno sul mio articolo dell’Epifania, in cui si parlava fra l’altro di Maria Grazia Barone e del divieto di ingresso dei parenti degli ospiti a Natale,indicato come piccola crudeltà da evitare. Lo faccio innanzitutto per precisare che Clorinda Calderisi non è più presidente della Fondazione Barone dallo scorso novembre. L’incarico è attualmente retto dal magistrato in quiescenza Giuseppe Pellegrino. Avevo preso l’informazione temporalmente errata dal sito. In ogni caso, per quel che posso dire io, Calderisi ha fatto un ottimo lavoro, e credo che altrettanto farà Pellegrino.

Detto questo, l’articolo è stato a sua volta ritenuto, non senza fondamento, una piccola crudeltà nei confronti di qualcuno. Perché mi è stata ricordata la gravità del momento e delle preoccupazioni, il lungo e pesantissimo tributo che i luoghi dell’assistenza alle persone anziane hanno pagato alla pandemia, la fragilità sistemica che gli ospiti di questi luoghi presentano. Qualcuno mi ha segnalato che in questi luoghi non ci sono solo bravi e qualificati dipendenti, ma anche tanti volontari. Persone che danno del proprio senza contropartite, che donano tempo, impegno, sensibilità (perché il contatto con la sofferenza lascia tracce indelebili nella vita quotidiana di ognuno). Vedersi affibbiare, per sovrammercato, una patente di crudeltà non è il massimo.

Tutto vero. Non voglio e non posso sottrarmi a queste critiche, ammansirle, negoziarle. Perché purtroppo le piccole crudeltà non sono quasi mai volontarie, ma inerziali. Avvengono cioè perché noi non pensiamo abbastanza e non facciamo abbastanza attenzione, non teniamo conto di quello che un nostro gesto, una nostra parola, a volte un nostro silenzio possono determinare in qualcun altro. Ed è un danno grave perché siamo, culturalmente, antropologicamente e biologicamente, esseri sociali, legati gli uni agli altri da vincoli invisibili e inestirpabili.

Il giornalismo, poi, è particolarmente esposto a questi rischi: perché è essenzialmente un riflettore, un tentativo di illuminare il mondo perché appaia più chiaro e comprensibile. E punta inevitabilmente il faro, per dirla con Montale sull’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità. Perché naturalmente si dovrebbe scrivere tutti i giorni che anche oggi, nella quasi totalità dei luoghi di assistenza e di cura, un numero enorme di persone ha lavorato in modo esemplare, mettendoci l’anima, dando un consueto e tangibile benessere a degenti, pazienti e ospiti. Che ha risolto le difficoltà o almeno alleviato di molto il carico delle famiglie di queste persone. Che le ha protette dall’infuriare di un morbo feroce, che in quei luoghi è come una volpe in un pollaio.

Si dovrebbe, ma non si può: perché per fortuna questo non è un miracolo o prodigio, ma la pura e semplice realtà consueta. E la realtà consueta, proprio perché è tale, non fa notizia. Certo, noi giornalisti non dovremmo mai dimenticare che, segnalando l’occasionale disservizio o malfunzionamento, cantiamo la mezza messa, direbbe Montalbano. Né che le vicende che narriamo possono essere raccontare e descritte in molti modi e da diversi punti di vista. Ma siccome il mondo è più grande di un giornale (cartaceo, audiovisivo o telematico che sia), e i modi di vedere il mondo sono tendenzialmente infiniti, ci sarà sempre qualcosa che il riflettore lascerà in ombra. È il nostro potere e la nostra responsabilità.

Il che significa, dal mio punto di vista, una cosa importante. Le critiche e i rilievi non sono i nemici del giornalismo e dei giornalisti, ma i loro migliori alleati: perché restituiscono alla realtà il suo carattere controversiale e non univoco. Un articolo non comincia ad esistere quando viene scritto, ma quando viene letto e discusso. Con il corollario che nessuno può pensare di stare scrivendo le Tavole della Legge o le sentenze inappellabili (anche se noi giornalisti siamo a volte tentati di crederlo). Se il nostro lavoro non è orizzontale e cooperativo, se non è la pretesa di impartire verità e lezioni ma il tentativo di dire ai propri simili e consociati qualcosa di imperfetto che grazie a loro si farà seme, diventerà energia e costruzione, non è giornalismo. Noi siamo costretti a cantare la mezza messa (il che non ci assolve dall’obbligo di provare a raccontarla tutta intera, o almeno i tre quarti, o almeno a far presente che esiste la metà taciuta), ma chi ci legge puà completarla.

Giornalismo a parte, la lezione più importante è che tutte le volte che ci sembra di poter indicare un errore, una stortura, un peccato, dobbiamo essere consapevoli che siamo i primi a correre il rischio di replicarlo. Per cui quel Tizio che ci spiegava il fatto della pagliuzza e della trave l’aveva anche in quel caso ingarrata.

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