Orsini, Conte, la guerra e le strade fasciste. La Storia per nome (e cognome)

by Enrico Ciccarelli

La mia umile opinione sul professor Alessandro Orsini è che la sua collocazione ideale sarebbe in una barberia, o alla conduzione di una bancarella che venda semi di zucca e lupini a fiere paesane di minore importanza. Ma siccome lui insegna alla Luiss e io ho a malapena uno stento diploma di maturità classica non pretenderò di avere ragione. E anzi comincerò dandogli ragione sull’ultima sua faconda esternazione. È verissimo, Hitler non riteneva che invadere la Polonia di concerto con Stalin avrebbe determinato la Seconda Guerra Mondiale. Lo aveva convinto di ciò soprattutto Neville Chamberlain, con la sua politica dell’appeasement. L’idea che Francesi e Inglesi sarebbero stati pronti a morire per Danzica era liquidata come una sciocca utopia da idealisti.

Era dal 1936, dalla rimilitarizzazione della Renania, che il dittatore tedesco irrideva le reazioni indignate delle cancellerie di Londra e Parigi alle sue mosse. Né l’intervento nazifascista a sostegno di Francisco Franco, né l’invasione della Cecoslovacchia e l’annessione dei Sudeti, né l’Anschluss avevano destato reazioni che andassero oltre le parole. Perché per la Pomerania avrebbe dovuto esserci una musica diversa? E per la verità, anche la dichiarazione di guerra presentata da Francia e Gran Bretagna nel settembre del 1939 non fu presa molto sul serio né da chi la ricevette né da chi la emise. Non per caso i mesi da quella data al maggio dell’anno successivo furono ricordati come drole de guerre, una guerra per finta, una puttanata senza conseguenze. Fu la blitzkrieg successiva, che portò i Tedeschi a frantumare le arroganti certezze francesi e mise i panzer sugli Champs Elysèes in poche settimane a precipitare l’Europa e il Mondo nel più immane conflitto della storia umana, convincendo Benito Mussolini a spendere qualche centinaio di morti per sedersi da vincitore al tavolo delle trattative e umiliando le truppe di Sua Maestà nella fuga precipitosa da Dunkerque.

Nemmeno allora Hitler, per la cecità che presto o tardi affossa tutti i dittatori, capì la portata dell’incendio che aveva provocato: la sua idea era che, trasformata l’Europa continentale in un recinto nazifascista, la perfida Albione, per la durezza della battaglia d’Inghilterra o per intima fragilità interna, arrivasse a più miti consigli e accettasse lo status quo, anche con l’allettamento della prospettiva che la Germania rivolgesse le sue armi a Est, come poi avvenne, per la battaglia finale contro il bolscevismo. A questo scopo il Führer sacrificò il suo delfino Rudolf Hess, l’unico gerarca del cerchio magico di Hitler a sopravvivere al conflitto.

Da questa vicenda vanno ricavate, casomai, lezioni opposte a quelle che ne trae Orsini: un aggressivo dittatore imperialista va fermato con ogni mezzo al primo conato, altrimenti il prezzo per fermarlo si moltiplicherà. Ma questo se non si vuole fare della storia un fumetto ridicolo a uso e consumo dell’audience. Perché diversamente è facile, per uno stupido narcisismo anticonformista, avventurarsi in elucubrazioni alla Massimo Fini, con gli statunitensi stupratori e i soldati tedeschi corretti, perché tradizionalmente educati, a differenza di quei barbari cow-boy d’Oltreoceano. Un’idiozia non meno farlocca di quella degli Alleati eroi purissimi e dei Tedeschi mostri, o degli Italiani brava gente.

In queste fughe nell’immaginario si annida la trappola del tartufismo italico, di operazioni da Azzeccagarbugli o professioni di crassa ignoranza. Così l’ineffabile Marco Travaglio ci spiega che il Regno Unito non teme un eventuale conflitto nucleare tattico in Europa (quello strategico coinciderebbe con quasi assoluta certezza con la fine del genere umano) perché –dice- le radiazioni non arriverebbero sulle loro teste. È noto che il vento sia ligio alle barriere doganali e che le radiazioni abbiano un sacrale rispetto del Canale della Manica.

Ma se si può capire che un giornalista-tribuno non abbia remore a mostrarsi disinformato (nessun giornale è mai fallito per avere sottovalutato l’intelligenza dei lettori, dice una massima aurea del giornalismo) è grave che un ex-presidente del Consiglio (sia pure divenutolo per caso) come Giuseppe Conte si avventuri in improbabili distinzioni fra difesa e contrattacco, citando a sproposito l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite (che infatti parla di diritto all’autotutela). È legittimo opporsi all’invio di armi, è legittimo anche stare dalla parte di Putin (cosa peraltro non scandalosa, per il leader di un Movimento a lungo in rapporti di cordialità e di consonanza con Russia Unita, il partito dello zio Vlad). Ma almeno ci siano risparmiati questi inverecondi siparietti.

D’altronde quest’idea fumettistica e on demand della storia (paradossalmente cominciato con il proliferare dei giorni della memoria dedicati all’una o all’altra tragedia secondo i gusti) trova un paradossale pendant in iniziative singolari.

A Foggia Sinistra Italiana, formazione politica, che vive un malcerto presente e un nebuloso futuro, ha pensato di prendersela con il passato. Vie intitolate al gerarca Gaetano Postiglione? A Giovanni Gentile? A Giorgio Almirante? Orrore! Si tratta di personaggi compromessi con il Regime Fascista, ergo condannati all’oblio da vindice mano democratica. L’idea di questa epurazione odonomastica presenta in verità qualche falla. Per esempio, non solo è difficile immaginare che sia apologia del fascismo intitolare strade a questi personaggi in un Paese nel quale c’è un Mausoleo intitolato a Rodolfo Graziani, il macellaio del Fezzan, responsabile di crimini di guerra in Libia e in Etiopia, ministro della Difesa Nazionale nella Repubblica di Salò. Soprattutto, le vie a Gentile e Almirante sono state ad essi intitolate non sotto il regime, ma dalla Foggia repubblicana e democratica, per decisione maggioritaria di un’assemblea democraticamente eletta.

E poi, quante intitolazioni andrebbero rimosse e cambiate? Per parlare della città di Foggia, ci sarebbe innanzitutto un problema di equilibrio di genere. Non vorrei sbagliare, ma direi che la proporzione fra strade che ricordano uomini e quelle che ricordano donne è grosso modo di dieci a uno. E poi siamo certi che una delle arterie di maggiore importanza della città debba ricordare il 24 maggio, cioè il giorno della partecipazione dell’Italia all’inutile strage della Prima Guerra Mondiale? Meritano davvero onore i luoghi in cui i figli del Sud furono mandati a morire in trincea, sacrificati agli errori degli alti comandi, a volte fucilati come disertori?

C’è qualche ragione per cui dovremmo andar fieri di via Bengasi, via Sciara Sciat e consimili celebrazioni delle nostre infamie coloniali? E, senza per questo strizzare l’occhio ai neoborbonici, sono davvero meritati Corso Garibaldi, Corso Vittorio Emanuele, Piazza Cavour? Giusto ricordare Nino Bixio, a giudizio del quale i nostri avi dell’Ottocento erano selvaggi da mandare in Affrica per civilizzarsi? E lasciamo stare Federico Secondo, con tutte le sue malefatte attribuite o compiute, lo scomunicato Manfredi, il terrorista irrendentista Oberdan e quello anarchico Angiolillo.

La verità è che i sentieri della storia sono più intricati di quanto vorrebbe il nostro mondo di soap opera, reality e talk show (spesso coincidenti). Ed è materia a cui è giusto dare del lei. Perché se le si dà del tu è facile esagerare. Come si dice dalle mie parti, la troppa confindenza è mamma della mala creanza. Evitiamo.

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