Voltati, Eugenio. L’eredità di Scalfari e i giornali partito

by Enrico Ciccarelli

Non è certo un piccolo ilota del giornalismo di provincia a poter parlare di un gigante della professione come Eugenio Scalfari. Ben altri talenti e ben altre penne provvederanno alla bisogna. È inevitabile che la scomparsa del Gran Veglio ecciti in queste ore gli agiografi, più che gli esegeti. Non solo perché nihil mortuorum nisi bonum, ma perché la stampa italiana è nella pratica impossibilità di fare i conti con lo scalfarismo, e in particolare con i suoi aspetti degenerativi, perché dovrebbe fare i conti con le tare sue proprie, con lo sbandamento e l’eradicamento delle sue posizioni da quelle del giornalismo tradizionale.

Reso omaggio al geniale facitore di giornali, applaudito ammirati il coraggio con cui tentò vie nuove, inchinatici a una penna fluviale e straordinaria, capace di chiarezza didascalica talora noiosa come di repentine e folgoranti impennate, forse possiamo fin d’ora cercare di dirci quali fossero i punti di consistenza dell’eresia scalfariana e quali zone oscure essa abbia generato.

Non entreranno in questa valutazione gli aspetti più tradizionalmente criticati dell’esperienza quasi secolare del nostro eroe: l’ipertrofia dell’ego, la mania del king making, una certa sgradevole morbosità sessista che impose alla cronaca dei suoi giornalisti e delle sue testate, la spregiudicatezza a volte oltre il limite con cui si mosse nella jungla editoriale e imprenditoriale italiana. Nemmeno revocheremo in dubbio la sua caratteristica di sommo direttore, che è nella mia idea quello che sa guardare dove altri non osano, e sa valorizzare punti di vista specifici e differenti.

Parleremo del suo lascito più evidente, che è quello del giornale partito. Anche qui, si faccia attenzione: Scalfari fu orgogliosamente doppiopesista, e lo ribadì nell’interessante polemica con Paolo Mieli, allora direttore del Corriere, ritorcendo l’accusa dell’altro (di non avere uniformità di giudizio, ma di trattare diversamente gli avvenimenti a seconda che riguardassero esponenti della propria parte o della parte avversa) con la definizione di cerchiobottista, che allude a chi, con motivazioni più o meno utilitaristiche, non prende posizione.

Ma il giornale partito, di cui la Repubblica degli anni Ottanta fu insuperato esempio, non è un giornale con un orientamento politico, liberal o conservatore che sia. Nemmeno i giornali di partito propriamente detti lo erano. Il giornale partito è un medium che fa politica in proprio, che interviene, in modo talora esplicito e talora subdolo nel gioco della rappresentanza e in quello degli interessi economici. Non nelle forme tradizionali del lobbysmo, come al tempo delle autostrade, quando la battaglia per fare i guard-rail in cemento o in acciaio coinvolse in una guerra guerreggiata industria cementiera e siderurgica, con relativi giornali al seguito.

Repubblica fece dei propri lettori –ed era la prima volta- un popolo, una comunità, replicando con numeri infinitamente maggiori e a cadenza quotidiana quelli che un tempo andavano in via Veneto con il Mondo di Panunzio e poi seguivano sull’Espresso formato lenzuolo l’inchiesta «Capitale corrotta, nazione infetta». Repubblica, pur essendo per i primi periodi il giornale di the rest of us, aveva, a differenza dei suoi antesignani, una vocazione maggioritaria. Aggredì con un successo straordinario il popolo del Pci, abituato a essere indottrinato dall’Unità e da Paese Sera e poi costruì il mito degli insigni civil servant, dei grandi borghesi alla Bruno Visentini o dei banchieri alla Carlo Azeglio Ciampi.

Aspro critico della Prima Repubblica, fu in realtà nemico di qualsiasi serio tentativo di innovazione: Bettino Craxi venne trattato come un pericoloso tiranno, Francesco Cossiga come un oligofrenico da ricovero. Scalfari e Repubblica esercitarono soprattutto poteri interdittivi, sparando ad alzo zero sui processi di cambiamento della società italiana al servizio di una dimensione oligarchica, della pericolosa bufala del Governo degli Onesti di cui la parabola grillina rappresenta l’esito tumorale.

Il giornale partito di Scalfari ebbe presto imitatori, a cominciare dal berlusconiano Giornale post-Montanelli, che poi diventò l’epopea di Publitalia, la concessionaria pubblicitaria di Mediaset che fornì uomini e strumenti a Forza Italia. Un processo di sostituzione dei media ai partiti e del chiacchiericcio alla politica il cui drammatico approccio terminale è lo sconcio del Fatto Quotidiano. Siccome spesso la sorgente disapprova la foce, probabilmente a Eugenio Scalfari suonerebbe ostico comprendere che i suoi autentici eredi si chiamano Vittorio Feltri e Marco Travaglio (per carità, con assai meno cultura, intelligenza ed eleganza), ma i fatti urlano questa evidenza, e non c’è modo di ignorarli, con tutto il doppiopesismo del mondo.

Insomma, salutiamo un genio assoluto, un riferimento imprescindibile nella storia del giornalismo italiano, i cui testi (anche quelli «teologici») saranno prezioso riferimento per le generazioni future. Ma per liberarci dai guasti terribili prodotti dai suoi epigoni, la cui pericolosità per la democrazia è testimoniata dagli eventi di questi giorni, ci vorranno molto tempo e molta fatica. Grazie di tutto, Eugenio. Anche nella tua gagliarda e spregiudicata robustezza di analisi troveremo gli strumenti per prendere le distanze dal tuo lascito.

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