Come fu che non ho mangiato gli «strascinati» pugliesi

by redazione

Pubblichiamo la seconda parte del racconto di Paolo Monelli sul pranzo tipico pugliese degli Anni Trenta

«E degli strascinati nemmeno una parola? Strascenate, o coppettielle, o recchietelle, cugini degli strangolaprièvete napoletani, mancheranno a questa tua cronaca?» così m’aggredì l’amico gargànico, nato al murmure della divina foresta d’Umbria che cullò con lo stormire dei suoi faggi il poeta Orazio, quando gli descrissi le mie prime esperienze pugliesi.

E poiché mi scusai male, e masticai pretesti, «scrivi» mi ordinò; ed io pronto cavai matita e carta; e così fissai alla meglio le parole dell’amico.
«Per fare gli strascinati la massaia impasta prima di tutto fior di farina con acqua e ova; e quando il gnocco è ben bene battuto col palmo della mano e fatto uguale e soffice ne tira un lungo cordone, una coda; e la coda la taglia in segmenti di un centimetro, un centimetro e mezzo al massimo. Fin qui, non c’è abilità speciale. Ma d’ora in poi è tutta arte, arte sublime. Le fanciulle di casa s’applicano fin dalla puerizia a fare gli strascinati; e v’ha di quelle che imparano bene, ma altre saranno sempre poco abili. E’ una grazia, non è studio. Dunque la massaia prende uno per uno quei segmenti; e con un indescrivibile e velocissimo colpo dei due indici e dei due pollici lo scava, lo rovescia, ne foggia una. specie di cappellino da prete. E’ gran civetteria farlo piccolissimo, e qualche massaia preferisce per questo il semolino; ad ogni modo tutta l’arte sta in quel colpo di pollici e indici, rapido e deciso, che dà la forma definitiva al cappelluccio o all’orecchietta, e sforzando la pasta dalla parte della convessità la smaglia un poco, le dà una lieve rugosità a cui meglio si possa aggrappare il sugo: il famoso ragù.»
Qui l’amico s’interruppe per ingollare un bicchiere di San Severo, giallo, cristallino, profumato, padre d’infiniti champagries e d’innumerevoli vermut bianchi. E riprese: «Il nostro ragù non ha nulla a che fare con le facili salse degli altri paesi. Quando la massaia vuol preparare il ragù si alza innanzi l’alba, perché il ragù sia pronto per l’ora del pranzo, che da noi è verso le due del pomeriggio; ché tutto il suo pregio sta nella lunghissima rosolatura. Si alzerà dunque prestissimo la massaia, e nel tegame di coccio verserà il nostro olio purissimo, che sa di fresco, che sente l’oliva, che non è così dolce e vizioso come il toscano, ma col suo lieve asprore risuscita sul palato la selva di ulivi prona sotto il vento marino. E vi aggiungerà una noce di sugna, speciale; e sale, e cipolla, e altri odori della campagna, semplici, ma soprattutto il basilico. Sarà andata a spiccarne alcune foglie dal grandissimo vaso allevato con ogni cura, orgoglio della famiglia, il vasonicona„ davvero vaso e icona, o immagine sacra; perché quel vaso dalla tonda chioma, grande come un arbusto, è di ogni famiglia il penato e l’altare. Poi mette dentro il malloppo della carne legata con lo spago, castrato squisito, il vitello della montagna, che tiene il paragone solo con i montoni del Delfinato; e lascia cuocere lentissimarnente, finché tutto si mescoli e si smarrisca.

Quando l’aroma comincia a riempire le stanze, la massaia fa scendere nel tegame una sorsata del miglior vino della casa, vecchio, tenuto apposta in serbo; rimette il coperchio, e lascia macerare».

Qui mi toccò leccarmi le labbra; pareva anche a me risentire l’odore diffuso per la casa antica dal focolare stretto e alto nel muro di calce splendente.
«No!» gridò l’amico. «No, non ci siamo ancora. Ora la massaia andrà a prendere la conserva di pomodoro fatta durante l’estate, seccata al sole, spessa; ne scioglie una cucchiaiata in un bicchier d’acqua e al momento giusto la versa nel tegame, per “attirare” la mistura.. E ricopre; e solo ogni tanto riscoperchia con precauzione, e aggiunge un po’ di acqua. Passano le ore, si fanno gli strascinati ad uno ad uno, sì ordinano, esercito bianco, sulla tavola; dal coccio misterioso continua a fluire l’odore, va per la finestra nella via, i passanti lo riconoscono alla qualità, dicono annusando: “così buono, non può essere che il ragù di donna Angelina”; oppure, “così aromatico, non può essere che quello di donna Lena, che ha il vino più vecchio del paese”.»
Già il racconto dell’amico mi mette in subbuglio i succhi dello stomaco; grato tormento, ma tormento; cerco di abbreviare, intervengo per farla finita, dico che ormai ho capito, basta metter su l’acqua per la pasta…
«…nel grandissimo caldaio,» mi toglie la parola l’amico «e quando gorgoglia gettarvi dentro gli strascinati e tirarli su al dente, e condirli col ragù. Ma non è finito. Ci vuole il formaggio. Ora la massaia prende del buon pecorino grasso, di Foggia, per una metà: e per l’altra metà ricotta tosta, cioè ricotta di capra e di pecora, grassa, salata, indurita, e ne grattugia un formaggio che sparso sugli strascinati li copre di una pàtina divina.»

Così narrava l’amico, o pressapoco; e a fatica correvo dietro con la matita alle alate parole; ma chi potrà rendere il tono estatico, ingordo della sua voce? Ma il suo racconto mi ha impedito di mangiare gli strascinati. Ormai pretendo troppo. Sono passato davanti a trattorie che esponevano per allettamento le bionde masnade degli strascinati sopra un tovagliolo; e mi chinavo, li scrutavo, mi pareva che il dorso non fosse abbastanza ruvido, che le dimensioni non fossero così ridotte come è pregio dell’arte; e tiravo via. Sono stato sulle terrazze della Fiera dove si serve il “piatto barese”, cioè appunto gli strascinati; e bevendo un bicchiere di vino rosa di Gioia del Colle (mica male, mica male) e stuzzicando l’appetito con i lampasciùli (sono cipolline selvatiche cotte sulla brace, servite con olio pepe e sale; bianche e violette, hanno un gustoso sapore di terra umida) interrogavo il cuoco, se si fosse alzato prima dell’alba; e il cuoco rideva a questa piacevolezza, e diceva che gli bastava venire alla Fiera alle undici, tanto i clienti non arrivano prima dell’una.
E allora ordinavo mozzarella della Capitanata col pepe, ancora più candida e fatta d’aria di quella di Aversa, e un bis di quel vino rosa (mica male, mica male), e non chiedevo altro; e chi ordinasse gli strascinati, lo guardavo con savia compassione.

L’amico garganico che mi ha parlato degli strascinati è Francesco Maratea, il quale è il vero autore di questa prosa; io non ho fatto che stenografare le sue parole, declamando egli con gesti ed occhi voraci, mentre traversavamo in automobile da Bari a Lecce.


Paolo Monelli

al link qui sotto la prima puntata del reportage del 1935 del giornalista e scrittore, tratto dai preziosi archivi del professor Giuseppe Maratea

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