I magici ori delle donne del Gargano

by Teresa Rauzino

Ori del Gargano, catalogo di grande impatto visivo curato da Anna Maria Tripputi e Rita Mavelli, pubblicato dall’editore Claudio Grenzi di Foggia, ci restituisce un aspetto inedito della cultura pugliese: l’oreficeria popolare. Un’arte ritenuta minore. L’artifex in genere non è mai stato elevato al rango di artista, gli è sempre stata negata la dignità di creatore.

A torto, come dimostrano i gioielli del Gargano, che emergono come opere artistiche di rara bellezza, restituendoci le atmosfere del Novecento.

Eppure fin dall’inizio del secolo scorso, l’attenzione degli studiosi di tradizioni popolari intorno a questi reperti era stata molto forte. Nel 1911 la “Mostra di Etnografia italiana”, tenutasi a Roma nel 1911 per celebrare il Cinquantenario dell’Unità d’Italia, offrì una stupenda rassegna dell’artigianato orafo di tutte le regioni italiane. L’intento era quello di “rincuorare e diffondere” un’industria ignorata e sopraffatta dalla “capricciosa imitazione di modelli forestieri”. I materiali relativi alla Puglia provenivano da Monte Sant’Angelo ed erano significativi della fiorente attività delle botteghe orafe del Promontorio del Gargano. Furono raccolti e presentati da Giovanni Tancredi.

Filippo Maria Pugliese ricordò così una visita alla ricca collezione dell’etnografo di Monte: «Giovanni (Tancredi) mi mette in mostra la sua preziosissima bacheca degli ornamenti paesani in oro… Sbarro gli occhi; ammiro; contemplo… Ecco gli orecchini: a navetta; alla pompeiana; a pendagli; a fiocchi, a campana, alla francese; a pallucce… e poi, le suste (collane): a fiori; con la crocetta; a rococò; col pendaglio; col ritrattino in cammeo, poiché la susta, affidata ad ampio nastro vellutato, nero, rosso o blu, è il segno della donna maritata, e, per lo più di agiate condizioni sociali. Ecco le collane d’oro: quella con la crocetta latina; quella col San Michele; quella alla pompeiana; con le palline, con rombetti piccoli, e detta “a specchi”; con grane e bottoni a barilotti; col coretto; quella, girante per due o tre volte intorno al collo, e reggente il “berlocco” che poteva essere anche ridotto nel mezzo dell’ampio petto matronale».

La raccolta degli ori del Gargano proseguì negli anni successivi, sempre a cura di Tancredi, che li fornì anche ad Ester Lojodice, nel 1930, per allestire, nel nascente “Museo di tradizioni popolari di Capitanata”, una sezione con un vasto repertorio di materiali orafi tipici dello Sperone d’Italia.

Il catalogo di Claudio Grenzi parte proprio dai reperti raccolti da Tancredi (Museo etnografico di Monte Sant’Angelo) e dalla Lojodice (Museo Civico di Foggia), che diventano tasselli significativi di una ricognizione che tocca i centri orafi di tutta la Capitanata (da San Marco in Lamis a Lucera, da San Severo a San Nicandro, da Mattinata fino a Vico del Gargano).

Una ricerca minuziosa e problematica per le curatrici della ricerca perché le testimonianze superstiti sono difficilmente rilevabili, a meno che non confluiscano nel “tesoro”di una chiesa, di un santuario oppure in un museo diocesano.

Le collezioni private sono infatti gelosamente custodite negli scrigni di famiglia, si trasmettono di generazione in generazione, rigorosamente per linea femminile.

Gli ori non si vendono e non si scambiano, se non in casi del tutto eccezionali. Gli elenchi dei pegni depositati, ad esempio, al Banco del Monte di Foggia, registrano il deposito di ori da parte di famiglie passate da condizioni floride allo stato di povertà.

Le due ricercatrici, nel loro lavoro di reperimento degli ori, hanno dovuto adottare approcci mediati e non invasivi per rendere possibile la comunicazione con i possessori o i portatori di questa preziosa cultura materiale. I superstiti maestri orafi, depositari di questa antica tradizione artistica, una volta convintisi dell’importanza dello studio, si sono rivelati fonti essenziali per la ricerca.

Le notizie emerse dal loro narrato, il riscontro con le fonti d’archivio e con la bibliografia tematica hanno permesso alla Tripputi e alla Mavelli di tracciare una mappa dell’attività orafa del territorio, il loro simbolismo, la storia della trasmissione e la tipologia dei gioielli prevalenti, di ricostruire i significati d’uso.

Emerge un dato significativo: il Gargano non è affatto un’isola culturale chiusa e inaccessibile, ma estremamente aperta a tutti gli influssi esterni. Le vie dei pellegrinaggi, della transumanza e il contatto giornaliero con le sponde balcaniche spiegano la circolazione di modelli orafi provenienti dalla Campania, dall’Abruzzo e addirittura dalla costa dalmata.

Certamente ci sono delle varianti rispetto ai modelli base, come si evince dalla terminologia linguistica utilizzata dai garganici per denominare i vari gioielli. «Le tipologie di collane, di orecchini e di pendenti – sottolinea Anna Maria Tripputi – hanno una straordinaria pregnanza linguistica, oserei dire onomatopeica».

Lo storico Michele Vocino mise in evidenza la quasi naturale predisposizione delle donne del Gargano all’esibizione dei gioielli: «La mania degli ori e dei monili è più di tutto accentuata a San Giovanni e a Monte sant’Angelo, dove sono in uso grandi spilloni artistici per i capelli e orecchini esageratamente grossi e pesanti da sembrare perfino impossibile che possano essere sostenuti da piccole orecchie».

Ori da esibire, dunque, ma – ci avverte Anna Maria Tripputi – anche da indossare in particolari momenti di passaggio della vita: il battesimo, la cresima, il fidanzamento, il matrimonio, la morte.

Il gioiello, in realtà, è un indicatore, un segno particolarmente efficace dell’orizzonte mitico-culturale di un territorio e soprattutto del popolo che lo abita. Connota le testimonianze di cultura materiale con la sua unicità.


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