Audrey Hepburn, la perfezione perduta

by Orio Caldiron

Smilza e ossuta, volto da elfo, occhi da cerbiatta, sorriso sensuale e innocente, Audrey Hepburn non assomiglia a nessun’altra nell’epoca del divismo maggiorato in cui dominano le grandi forme. Il suo sguardo irrequieto attraversa in Vacanze romane (1953) di William Wyler, la città eterna dal Colosseo alla Bocca della verità, da Villa Borghese a Piazza di Spagna. Dai bar all’aperto ai dancing sul Tevere, per impadronirsene nella labile ma tenace freschezza del ricordo come chi fa i sopralluoghi a futura memoria. Sospesa tra realtà e sogno, neorealismo che non c’è più e commedia all’italiana che non c’è ancora, la principessa in libera uscita è l’attrice che si avvia a diventare diva, ma anche la diva che si toglie la corona, scende dal trono e corre in Vespa tra il pubblico per rannicchiarsi nel letto del giornalista Gregory Peck, senza che tra di loro cadano mai le mura di Gerico.

Se tutto sembra cominciare dal successo clamoroso del film, che le vale il suo primo e unico Oscar, la ventitreenne attrice belga – è nata a Bruxelles il 4 maggio 1929, morirà a Tolochenaz, in Svizzera, il 20 gennaio 1993 – ha alle spalle il lungo tirocinio nella scuola londinese di danza, a cui seguono i primi passi nel mondo del musical teatrale, i corsi di dizione, l’attività di modella, i servizi fotografici. Nelle particine che il cinema inglese le offre, da Risate in paradiso a Racconti di giovani mogli, entrambi del 1951, si fa notare per il fascino sbarazzino. All’epoca possiede soltanto una gonna, una camicetta, un paio di scarpe, un basco e quattordici foulard, ma già s’impone per la sua naturale eleganza.

NON DIMENTICHIAMO L’OLANDA OCCUPATA

Audrey Hepburn si chiama in realtà Edda Van Heemstra Hepburn-Ruston. La madre, la baronessa Ella Van Heemstra, è un’aristocratica olandese fiera del titolo e delle proprietà di famiglia, che ha già avuto due figli con il primo marito da cui ha divorziato. Il padre, Joseph Hepburn-Ruston, è una figura ambigua che vanta origini inglesi e ruoli di banchieri mai confermati. Se l’infanzia si svolge all’insegna degli allegri giochi all’aria aperta con i fratellastri Ian e Alexander, a sei anni l’abbandono del padre è l’evento più traumatico della sua vita, una ferita che non si rimarginerà mai del tutto. Negli anni bui della guerra, la dolorosa esperienza dell’Olanda occupata dai nazisti la segna profondamente. Se minimizza il suo contributo alla Resistenza, e cioè di aver portato messaggi segreti infilati nelle scarpe come tanti altri bambini anche più coraggiosi di lei, solo per caso riesce a sfuggire a un rastrellamento tedesco nascondendosi in uno squallido scantinato, dove sopravvive per quasi un mese con un pezzo di pane duro e una bottiglia d’acqua. Quando nel ’46 legge il Diario di Anne Frank s’identifica con la piccola ebrea: “Avevo esattamente la sua stessa età, avevamo dieci anni quando la guerra è scoppiata e quindici al momento della fine. Era come leggere la mia vita, rivivevo tutte le mie emozioni, le mie paure”. Si rifiuta categoricamente di partecipare al film che più tardi ne viene tratto. Soltanto all’inizio degli anni novanta, dopo molte esitazioni, accetta di fare la voce recitante, con la London Symphony Orchestra sullo sfondo, nel Diario di Anne Frank di Michael Tilson Thomas.

Il successo di Gigi a Broadway le apre le porte di Hollywood. Nei mesi delle oltre duecento repliche del musical fervono dietro le quinte i preparativi per il suo primo film americano, le cui riprese iniziano a Roma nell’aprile del 1952 e proseguono per tutta l’estate, destinata a restare nelle cronache della città come una delle più calde del secolo. Nello stesso anno, nell’intervallo tra la fine del film e l’inizio del successivo, avviene a Parigi l’incontro con Hubert de Givenchy, il giovane sarto di appena ventisei anni alla vigilia della sua prima sfilata. Quando si presenta all’atelier di Rue Alfred-de-Vighy numero 8, deve vincere la diffidenza dello stilista, sorpreso di trovarsi di fronte a una ragazza giovane, magrissima, dai grandi occhi, che vuole assolutamente provare almeno uno dei vestiti della nuova collezione. Quando finalmente ci riesce, anche lui deve ammettere che le va perfettamente come la scarpina di cristallo di Cenerentola. È l’inizio di un rapporto straordinario, profondo, fatto di complicità, destinato a durare tutta la vita.

Cenerentola a Parigi

SABRINA, UNA FOLGORAZIONE

La folgorazione di Sabrina (1954) di Billy Wilder coincide con il fascino della protagonista che, sin dal ritorno nella grande casa di Long Island, sfoggia il suo sofisticato guardaroba parigino con la spavalda, irresistibile fotogenia di chi si prepara a diventare l’icona assoluta dell’eleganza e della leggerezza. Si rinnova a ogni visione il mito della primavera nella favola-commedia dell’amore che si sposta di continuo, è sempre altrove, alle prese con slanci generosi e segrete timidezze, tenaci malinconie e improvvisi brillii. Un miraggio, un miracolo, un’apparizione che si chiamano soprattutto Audrey Hepburn, i suoi sorrisi, il suo passo leggero, le sue irruzioni nel fotogramma, le sue reticenze. Il suo modo inimitabile di indossare modelli che Hubert de Givenchy, accreditato nei titoli di testa, disegna per il film, dall’abito di organza bianco con un ricamo nero che ha nella scena del ballo con David, scandito dalle note di “Isn’t it romantic?”, al vestito da sera di raso nero con un irriverente fiocchettino a farfalla in alto sulla spalla, che si gonfia attorno al suo corpo disegnando l’immagine di un cigno che incanta Linus, fino alla sobrietà assoluta della calzamaglia nera dell’ultimo incontro nell’ufficio che la svela nella sua spoglia vulnerabilità. Come ammette lo stesso Billy Wilder: “Non ci sarà mai una seconda Audrey Hepburn. Lei resterà per sempre un’immagine del suo tempo. Dipende tutto da un elemento x, un quid particolare che qualcuno ha e qualcun altro no. Audrey aveva quel qualcosa di speciale. Sullo schermo sapeva creare qualcosa di nuovo, qualcosa che ha a che vedere con lo charme e l’eleganza. Era assolutamente meravigliosa. A nessuna delle attrici venute dopo possiamo chiedere di essere la nuova Audrey Hepburn. Quello Givenchy è stato indossato una volta per tutte”.

Sabrina

GUERRA E PACE CON MEL

Il 24 settembre si sposa con l’attore Mel Ferrer. Il matrimonio viene celebrato a Burgenstock, lo sperduto paesino svizzero in cui Audrey ha uno chalet, dove passano il weekend, sottraendosi ai giornalisti che gli danno la caccia. Quando poco dopo vengono in Italia è più difficile sfuggire ai fotoreporter che li inseguono fino alla villa vicino a Anzio bussando energicamente a porte e finestre per farli uscire e scattare i loro servizi. Il soggiorno italiano si protrae più del previsto perché i coniugi accettano di partecipare a Guerra e pace di King Vidor nei ruoli di Andrej Bolkonski e Natasha Rostova, il kolossal di Dino De Laurentiis che viene girato in un anno e mezzo tra Cinecittà, Pinerolo, il castello di Stupinigi, il Sestriere. L’intenso desiderio di maternità di Audrey si realizza finalmente il 17 gennaio 1960 con la nascita di Sean. Il matrimonio con Mel – che, nonostante la sua carriera di attore e i suoi discutibili tentativi nella regia, la stampa lo chiama Mr. Hepburn – tra alti e bassi, rotture e riconciliazioni, prosegue per tredici anni fino al 1967. solo un paio di anni dopo, il 6 gennaio 1969, si sposa con lo psichiatra romano Andrea Dotti. Il nuovo matrimonio sembra finalmente risolvere i problemi di cuore dell’attrice, che resta a lungo lontana dal set. Mentre non trascura Sean, che accompagna personalmente a scuola, l’8 febbraio nasce Luca. La famiglia cerca di vivere una vita assolutamente normale, nonostante gli assalti dei paparazzi. Il rapporto con il marito italiano s’incrina definitivamente con l’inizio degli anni ottanta. L’ultimo amore è Robert Wolders. Con lui, Sean e Luca, si ritrova sempre più spesso nella villa “La Paisible” a Tolochenaz, come una gioiosa famiglia ricostituita. Nel 1988 comincia la sua attività di ambasciatrice dell’Unicef, a cui dedica fino all’ultimo tutte le sue energie, recandosi in Etiopia, Somalia, Kenia, Equador, Guatemala: “Se le persone si interessano sempre a me, se il mio nome li obbliga a ascoltare quello che voglio dire, è meraviglioso. Ma oggi non mi interessa più fare la promozione di Audrey Hepburn. Il mio solo interesse è spiegare al mondo come si possono aiutare quei bambini che non conoscono la pace, che non conoscono la gioia e che non sorridono mai. Questa è la mia ragione di vita. è per questi bambini che parlo, per quelli che non possono difendersi da soli”.

Guerra e pace

Sin dall’inizio il rapporto con la fotografia è uno degli aspetti più sintomatici del personaggio Hepburn, un segnale importante della sua modernità che nel giro di pochi anni fa rimbalzare la sua immagine nelle copertine dei magazine di tutto il mondo. Richard Avedon, che ha incontrato sin dai tempi di Gigi quando la fotografa per “Harper’s Bazar”, si ritrova nel cast di Cenerentola a Parigi (1957) di Stanley Donen come consulente per il colore e gli effetti ottici. La stessa figura del fotografo di moda Dick Avery, interpretato nel film da Fred Astaire, sembra ispirarsi al lavoro dell’artista americano che era stato tra i primi a portare le sue modelle nelle strade, nei caffè, tra la gente. Si rende conto che il sogno di ballare con Fred Astaire – in perfetta forma a quasi sessant’anni il grande ballerino è qui al suo ultimo musical – si sta finalmente realizzando soltanto quando sente il suo braccio intorno alla vita e viene sollevata da terra. Se resta indimenticabile il glamour del lungo e avvolgente vestito rosso senza spalline con grande sciarpa di chiffon, un’autentica e vivacissima esplosione di colore, che indossa nella sfilata, più sottile è il fascino minimalista della maglia nera, jeans e mocassino con cui, tra i tavoli, sul pianoforte, davanti all’orchestrina, si scatena nella irresistibile danza acrobatica di “Basal Metabolism”, spiritosa parodia dei nuovi balli in cui si esprime la ribellione rock teenagers.

DOVE VA A COLAZIONE HOLLY GOLIGHTLY?  

Quando all’inizio di Colazione da Tiffany (1961) di Blake Edwards, Holly Golightly all’alba di un giorno qualsiasi scende dal taxi giallo nel suo lungo Givenchy da sera e si avvicina alle vetrine di Tiffany’s sulla Quinta Strada di New York, con in mano bicchiere di caffè e croissant, per guardare attraverso i grandi occhiali neri i diamanti che sono esposti, non sappiamo ancora che si tratta di un rito. Non solo il rito privato di consolazione che la squinternata ragazza texana compie ogni mattina nel tentativo impossibile di pareggiare i conti con l’ultimo appuntamento sbagliato della sua turbolenta vita sentimentale. Ma piuttosto il rito pubblico con cui Holly-Audrey, tra maldestri francesismi, dialoghi corrosivi, party selvaggi, attraversa il film come un ciclone, fino a far passare in secondo piano i sottotesti scabrosi del suo personaggio più spregiudicato, ma anche quelli forse più imbarazzanti dell’happy end sentimentale, per risolversi completamente nell’impalpabile leggerezza del segno, nella silhouette grafica, nel geroglifico di riferimento che ancor oggi dopo cinquant’anni rispunta continuamente nei flash delle fotografie di moda, nelle trovate della pubblicità, negli azzardi del design, nelle pagine dei settimanali femminili per chiederci in modo volutamente sfrontato e provocatorio quanto ci decideremo a mettere ordine tra le immagini del divismo di ieri, azzardando magari qualche ipotesi sulla loro capacità di resistere nel tempo, tra il caschetto di Louise Brooks, lo sguardo da sfinge di Greta Garbo, la voce graffiata di Marlene Dietrich, la risata definitiva di Grace Kelly, la gonna di Marilyn Monroe sollevata dall’aria della metropolitana.

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