Ingmar Bergman «Passeggio ancora per le strade di Uppsala»

by Orio Caldiron

Non c’è un altro caso in cui il cortocircuito tra autobiografia e storiografia, tra vocazione d’autore e storia del cinema s’imponga con altrettanta forza come nell’opera di Ingmar Bergman. Nelle testimonianze dedicate in questi mesi al grande regista scomparso, di cui l’home video continua a riproporre molti titoli rari e meno rari, si dimentica spesso la “Bergman’s List”. Scritta nel 1995 per il Festival di Göteborg, in occasione del centenario della nascita del cinema, è la galleria dei film più amati della settima arte, l’illuminante antologia personale di tenaci predilezioni e di ossessioni ricorrenti. Spettatore d’eccezione, sospeso tra frequentazioni compulsive e prolungate astinenze, il regista si sintonizza con i film degli altri fino a farli propri, altrettanti momenti della storia della sua vita.

PRIMO INCONTRO CON SJÖSTRÖM

Nei confronti del cinema dei primi decenni del secolo il regista svedese dimostra la straordinaria disponibilità di uno spettatore pronto al coinvolgimento e all’applauso. L’incontro più importante è quello con Victor Sjöström, uno dei pionieri del cinema svedese. Il carretto fantasma (1920), il film-rivelazione a cui resterà legato tutta la vita, lo vede per la prima volta all’inizio degli anni trenta: «Almeno una volta all’anno ho bisogno di vederlo, è uno dei film più belli che ho visto nell’arco della mia vita. Ha influenzato la mia professione, perfino nei più minuti particolari». Avverte come pochi altri l’esigenza di verità, che nasce dall’osservazione del reale: «Non cede mai neppure per un solo momento alla facilità, alla tentazione di semplificare, di aggirare le difficoltà, di barare. Non cede all’estetismo, o semplicemente al brillante». La figura-chiave di Sjöström – che vorrà sul set di Il posto delle fragole (1957) dopo che era stato una specie di consigliere artistico e di angelo custode all’epoca del suo esordio di regista – richiama l’attenzione sull’importanza del cinema muto e sul ruolo che vi ha il primo piano. Non potrebbe essere più profonda la sintonia con il grande Dreyer di La passione di Giovanna d’Arco (1928), che ha sottolineato a più riprese il significato del volto umano nel cinema: «Nulla al mondo può paragonarsi al volto dell’uomo. È un paesaggio che non si finisce mai di esplorare, di particolare bellezza, dolcissimo o aspro che sia. Non c’è esperienza più alta di quella che può offrirsi in uno studio di posa quando sotto la forza misteriosa dell’ispirazione il volto sensibile di un attore si anima e la sua espressione raggiunge le vette della poesia».

IL CINEMA FRANCESE

L’amore per il cinema francese tra le due guerre è per lui una passione clandestina e contrastata. «Negli anni 1937, 1938 e 1939, sono arrivati i film francesi. La nostra compagnia, la Svensk Filmindustrie li detestava. I film di Marcel Carné, quelli di Julian Duvivier, Il bandito della Casbah, Il porto delle nebbie, Alba tragica. Il mio era un amore segreto. Era assolutamente proibito perché il modo americano di raccontare le storie era la sola maniera possibile di fare il cinema». L’ammirazione maggiore va a Carné: «Alba tragica e Il porto delle nebbie sono dei veri capolavori. Sono così pervasi da una luce eterna, in un certo senso sono assolutamente perfetti». Ma non è meno forte la sintonia con Duvivier, di cui riconosce esplicitamente di aver subito l’influenza: «Devo aver visto il suo Bandito della Casbah almeno venticinque volte. Amo quel film! Posso ancora rivederlo con lo stesso entusiasmo. Sì, quei film francesi erano così diversi da quelli americani. E io sentivo il metodo francese molto più vicino a me. Se qualcuno mi avesse chiesto il perché, sarei stato incapace di spiegarlo, ma, a partire dal momento in cui ho potuto, ho cercato di fare i miei film in stile francese, senza molto successo del resto». Si sa che Lorens Marmstedt – il produttore che viene in suo aiuto dopo il clamoroso insuccesso dei primi film – gli rimprovera brutalmente l’attaccamento ai suoi idoli francesi: «Devi tener presente che Birger Malmsten non è Jean Gabin e soprattutto che tu non sei Marcel Carné».

Ingmar Bergman

GLI AMERICANI E IL NOIR

Negli anni del dopoguerra, il cinema americano sembra riprendersi la rivincita nelle predilezioni del giovane cineasta con la suggestione di un genere come il noir, destinato a rinnovare la scandita drammaturgia del cinema classico americano: «I registi del noir erano i miei idoli all’epoca. Un regista che ha avuto molta importanza per me è Michael Curtiz. Mi ricordo che con Lars-Erik Kjellgren, eravamo molto amici, andavamo a vedere i film di Curtiz per imparare, rivedevamo lo stesso film anche molte sere di seguito, ed era maledettamente utile. Possedeva il dono di raccontare una storia dall’inizio alla fine in maniera semplice, chiara e ordinata, esattamente come Raoul Walsh». Neppure più tardi viene meno la disponibilità a concedersi alla fascinazione hollywoodiana, che incarna perfettamente il meccanismo stesso dello spettacolo cinematografico. Sta a sé un regista come Alfred Hitchcock, che gli sembra per molti aspetti «un personaggio arrogante, sgradevole, cattivo e molto intelligente», di cui non si possono tuttavia misconoscere le grandi qualità di metteur en scène. «È stato un regista magnifico perché ha saputo sperimentare molto all’interno di un’industria interamente commerciale. Era molto difficile. E se si vede – io posso vederlo e rivederlo – Psyco (1960), quel bizzarro film che amo tanto, è incredibile. Quell’uomo avido l’ha fatto con soldi suoi, una piccola troupe, e una tale logica, una tale precisione, una tale ossessione della qualità cinematografica».

Nelle varie occasioni in cui è venuto ricostruendo i tratti essenziali della propria attività creativa, Bergman ha sottolineato con energia il processo di immedesimazione profonda che esiste tra l’autore e i propri film, «concepiti nelle viscere dell’anima, nel cuore, nel cervello, nei nervi, nell’organo sessuale e persino nelle budella». Se il regista in ogni film mette in discussione tutto se stesso, forte della straordinaria possibilità di rappresentarsi da solo i propri destini, è anche perché la regia affonda le sue radici nel tempo e nei sogni, in una stanza segreta dell’anima. «La verità è che io vivo sempre nella mia infanzia, passeggio per le silenziose vie di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi. Mi sposto con la velocità di secondi. In verità, abito sempre nel mio sogno, e di tanto in tanto faccio una visita alla realtà».

TARKOVSKIJ, IL PIÙ GRANDE

Il punto d’arrivo del cinema contemporaneo è per lui Andrej Tarkovskij, il più grande di tutti, considerato come l’autore di riferimento e il compagno di strada in nome della sintonia assoluta. «Quando il film non è un documento, è un sogno. Per questo Tarkovskij è il più grande di tutti. Lui si muove con assoluta sicurezza nello spazio dei sogni, lui non spiega e, del resto, cosa dovrebbe spiegare? È un osservatore che è riuscito a rappresentare le sue visioni facendo uso del più pesante e del più duttile dei media». La scoperta di Tarkovskij è un miracolo, l’incoraggiamento e lo stimolo in grado di indicare il traguardo possibile, di marcare la soglia dell’espressione cinematografica: «Quando scoprii il primo film di Tarkovskij, fu per me un miracolo. Mi trovavo spesso davanti alla porta di una camera di cui allora non possedevo la chiave. Una camera dove io avrei voluto penetrare e dove lui si trovava perfettamente a suo agio. Io mi vidi incoraggiato e stimolato: qualcuno era riuscito ad esprimere quello che io avevo sempre voluto dire senza sapere in che modo. Se Tarkovskij è per me il più grande, è perché porta nel cinema un nuovo linguaggio che gli permette di afferrare la vita come apparenza, la vita come sogno».

La linea di tendenza è molto netta: «Fellini, Kurosawa, Buñuel si muovono nello stesso modo di Tarkovskij. Antonioni era sulla stessa strada ma cadde sopraffatto dalla propria noiosità». Ma non è meno forte il rischio della maniera: «Amo e ammiro Tarkovskij e penso che sia uno dei più grandi registi. La mia ammirazione per Fellini è sconfinata. Ma mi sembra che Tarkovskij abbia cominciato a fare film alla Tarkovskij e che Fellini negli ultimi tempi abbia fatto alcuni film alla Fellini. Kurosawa non ha mai fatto film alla Kurosawa. Invece non mi è mai piaciuto Buñuel. Scoprì presto che poteva fabbricare delle artificiosità che potevano essere elevate a una sorta di speciale genialità buñueliana, e così ripeté e variò i suoi artifici, con risultati sempre ugualmente graditi. Buñuel fece quasi sempre film alla Buñuel. È quindi tempo di guardarsi allo specchio e domandarsi: che cosa è successo veramente? Bergman ha dunque cominciato a fare film alla Bergman?».

DA DE SICA A FELLINI

Nei confronti del cinema italiano del dopoguerra non sembra andare oltre un apprezzamento di circostanza. Ammette di aver girato alcuni dei suoi primi film sotto il forte influsso di Roberto Rossellini e del neorealismo italiano. Cita più volte Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica, che considera uno dei suoi film preferiti. Ma l’eccezione è Federico Fellini, con cui il maestro svedese ha avuto un lungo, discontinuo, altalenante rapporto personale dalla visita sul set di Fellini Satyricon (1969) all’appuntamento mancato alla Mostra di Venezia quando Bergman vede da solo E la nave va (1983) in una saletta del Palazzo del Cinema del Lido: «Ho una grande ammirazione per Fellini, sento una specie di fraterno contatto con lui, non so esattamente perché. Ci siamo spesso scambiati lettere brevi e confuse. È buffo. Lo amo perché è se stesso, è chi è e ciò che è. Il suo carattere è qualcosa che mi commuove, benché sia profondamente diverso dal mio. Ma lo comprendo benissimo e l’ammiro enormemente. Mi si dice che sia affascinato dai miei film. Provo lo stesso sentimento per i suoi».

Quale potrebbe esssere, dopo aver ripensato a tanti film degli altri, il segreto dell’artista Bergman? «Quando si è artisti, quando si creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Se si ha fiducia nelle proprie emozioni, si può essere del tutto incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze delle emozioni che hai suscitato. Per sempre». Nel suo ritiro di Fårö, il maestro svedese ha ripreso in mano fino all’ultimo i film della sua cineteca personale o quelli che il Filminstitutet gli prestava, ritrovando il piacere eterno della visione, il fascino inesauribile delle ombre che si muovono. «La sedia è comoda, la stanza protetta, si fa buio e la prima tremante immagine compare sulla parete bianca. È silenziosa. Il proiettore ronza piano nella sala di proiezione ben isolata. Le ombre si muovono, si girano verso di me, vogliono che io presti attenzione al loro destino. Sono passati tantissimi anni, ma l’eccitazione è sempre la stessa».

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