Le regole dell’Hitchcock touch

by Orio Caldiron

Quando nella primavera del 1939 Alfred Hitchcock si trasferisce negli Stati Uniti, le estenuanti trattative con David O.Selznick che l’ha voluto a Hollywood sono finalmente concluse. Il produttore non sa ancora quale sarà il primo film americano del suo nuovo acquisto e gli propone la storia catastrofica dell’affondamento del Titanic che non verrà mai realizzata. Nel frattempo, il maestro inglese si è assicurato il romanzo di Daphne du Maurier in corso di stampa – un mélo gotico dall’atmosfera morbosa e ossessiva – di cui ha già avviato la sceneggiatura.

Se non fosse impegnato nelle fasi finali di Via col vento, il kolossal che gli assorbe tutte le energie, il tycoon interverrebbe più pesantemente nella lavorazione di Rebecca, la prima moglie (1940). Anche se il modo di girare di Hitch, che sin dall’inizio sa quale sarà il montaggio finale e fa solo le riprese strettamente necessarie, gli lascia poco spazio per le capricciose interferenze con cui è solito mettere alla prova la pazienza degli autori. Nonostante qualche stravagante richiesta di troppo – quando la casa dei Manderley va a fuoco, Selznick avrebbe voluto che tra le fiamme apparisse una gigantesca “R” – Rebecca, la prima moglie va in porto in modo relativamente tranquillo e ha subito un grande successo, inaugurando con l’Oscar per il miglior film la stagione americana.

LA PADRONANZA DELLA TECNICA

La straordinaria padronanza della tecnica e del linguaggio cinematografico gli viene dalla varietà delle esperienze compiute in patria prima di passare alla regia. Giovanissimo, comincia come disegnatore di titoli e didascalie per lavorare poi come scenografo, sceneggiatore, montatore e aiuto-regista fino all’importante trasferta in Germania negli anni venti, in cui entra in contatto con gli autori e i tecnici dell’espressionismo tedesco. Se lavora nello stesso studio in cui Fritz Lang ha appena finito di girare I Nibelunghi, memorabile è l’incontro con Friedrich W.Murnau. Sul set di L’ultima risata, il grande regista tedesco tratta alla pari il timidissimo inglese, di cui apprezza la singolare abilità con la macchina da presa. L’esperienza lascia il segno nella scansione dell’inquadratura dei suoi film più personali, dove la tipica drammaturgia della luce e dell’ombra è al servizio di un cinema dalla costruzione rigorosa di grande impatto sul pubblico. Il primo successo come regista è Il pensionante (1926), che riprende la vicenda di Jack lo Squartatore, il caso più clamoroso della cronaca nera fine secolo, evitando esplicitamente le concessioni al macabro. L’angoscia che suscita si fonda sul gioco sottile delle apparenze e delle ombre inquietanti. Nel passaggio al parlato – con Blackmail (1929) e Omicidio! (1930) – non rinuncia al predominio dell’immagine, ma sperimenta l’utilizzazione espressiva di suoni e rumori.

LE SPY STORIES DEL PERIODO INGLESE

Nel periodo inglese realizza una ventina di film, di cui i più significativi sono Il club dei trentanove (1935), L’agente segreto (1936), Sabotaggio (1936), in cui rifacendosi ai romanzi di John Buchan, Somerset Maugham, Joseph Conrad, mette a punto i meccanismi fondamentali del thriller, dall’understatement al Mac Guffin, che sono alla base anche dell’attività futura. Se l’understatement è il modo di presentare avvenimenti molto drammatici con toni leggeri, la sapiente mescolanza a cui si affida l’“Hitchcock touch”, il Mac Guffin è il pretesto che assume un rilievo particolare nella sua poetica di narratore distaccato e ironico: «Nelle vecchie storie di spionaggio, nei racconti sulle Indie e sugli inglesi che lottano contro gli indigeni lungo la frontiera dell’Afghanistan, c’è sempre il furto della pianta della fortezza. Questo è il Mac Guffin. Mac Guffin è dunque il nome che si dà a questo tipo d’azione: rubare delle carte, rubare dei documenti, rubare un segreto. La cosa non è importante in se stessa e i logici hanno torto a cercare la verità nel Mac Guffin. Nel mio lavoro ho sempre pensato che le “carte” o i “documenti” o i “segreti” della costruzione della fortezza debbano essere estremamente importanti per i personaggi del film, ma di nessun interesse per me, il narratore».

Il gusto per la spy story si accompagna al rifiuto del giallo alla Agatha Christie, fondato sul whodunit, sul “chi è stato?”. Il regista considera il whodunit come una sorta di rompicapo che suggerisce una curiosità priva di emozioni, mentre le emozioni sono l’elemento necessario al suspense. Nei giochi di pazienza e nei cruciverba si attende tranquillamente la risposta alla domanda: “chi è l’assassino?”.

Hitchcock trova la sua strada caratteristica in un poliziesco cinematografico che fa a meno dell’investigatore e punta sulla partecipazione emotivamente coinvolta dello spettatore. Il mezzo più potente per tenere viva l’attenzione è il suspense, la bussola del cinema hitchcochiano. Se è talvolta collegato con la paura, il suspense non coincide con la paura, né con la dilatazione dell’attesa: mentre nel giallo tradizionale è necessario che il pubblico sia tenuto all’oscuro, insomma bisogna barare, per fare suspense è indispensabile che il pubblico sia perfettamente informato di tutti gli elementi in gioco. Che cosa avviene nel passaggio dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti? Lo stesso regista considera fondamentale il superamento della “insularità” del paese d’origine e dei limiti strutturali dell’industria cinematografica nazionale. Ma il vero salto qualitativo è un altro. Attraversando l’oceano, riesce una volta per tutte a lasciarsi alle spalle la tradizione del giallo legata alla detection, all’indagine razionale per sostituirvi la struttura delle emozioni che è al fondo dello spettacolo cinematografico come grande spettacolo di massa.

NEL SEGNO DELL’AMBIGUITÀ

Negli anni di guerra il cinema risente del clima del momento, se non proprio delle esigenze della propaganda, un aspetto tutt’altro che trascurabile per un inglese lontano dal fronte. Il prigioniero di Amsterdam (1940) rivisita le storie di spionaggio del decennio precedente nella vicenda del giornalista americano che indaga sul rapimento di uno statista olandese con l’aiuto della figlia del capo del movimento pacifista. Le inverosimiglianze non disturbano più di tanto perché l’attenzione dello spettatore è totalmente assorbita dalla corsa contro il tempo dei protagonisti. L’abilità del regista risalta nelle sequenze più celebri del film, dall’inseguimento tra le centinaia di ombrelli nella piazza di Amsterdam ai mulini con le pale che girano controvento, dalla paura del vuoto sulla Torre di Londra alla caduta in mare dell’aereo ripresa dall’interno della cabina. Il gusto per la trovata a effetto si ripropone nella scena della Statua della Libertà di New York di Sabotatori (1941) e nella scialuppa che accoglie i superstiti di una nave affondata dai nazisti in mare aperto di I prigionieri dell’oceano (1943). Girato tutto in studio, è tra i più sottovalutati di Hitch, ancora una volta bravissimo nel condurre con la necessaria crudeltà il climax psicologico che diventa dibattito morale. Nello stesso periodo sta a sé Il sospetto (1941), con Cary Grant e Joan Fontaine, che inaugura nel segno dell’ambiguità le coppie degli anni successivi. Se l’enigmatica indecifrabilità del marito è vista dallo sguardo smarrito e altalenante della moglie, la fragrante efficacia del racconto si deve all’ambientazione britannica ricostruita con divertita ironia, strizzando l’occhio agli stereotipi cari al pubblico americano. L’inquietudine domina L’ombra del dubbio (1943), in cui la trama dei sottintesi tra lo zio Charlie (Joseph Cotten) e la nipote Charlie (Theresa Wright), le implicazioni psicologiche se non sessuali si svolgono sullo sfondo dei riti e delle convenzioni della provincia americana.

La grande stagione degli anni cinquanta si apre con L’altro uomo (1951), tratto dal primo romanzo di Patricia Highsmith e sceneggiato da Raymond Chandler, in cui si delinea lo scambio di colpevolezza tra lo psicopatico Robert Walker e il campione di tennis Farley Granger che s’incontrano per caso in treno. La forza del film sta nella scansione del tempo, ora concentrato ora dilatato in modo geniale, passando attraverso la sequenza dell’omicidio e la contemporanea partita di tennis, via via, fino alla scena della giostra impazzita. Il delitto perfetto (1954) segna l’incontro con Grace Kelly, irripetibile incarnazione dell’ideale femminile del regista che è al centro anche di La finestra sul cortile (1954) e di Caccia al ladro (1955), in cui è di nuovo accanto a Cary Grant. Strepitoso esempio di metacinema, La finestra sul cortile, tratto da un racconto di Cornell Woolrich, scommette sull’unità di luogo e sullo sguardo di James Stewart, il reporter bloccato nella sua abitazione da una gamba ingessata, che è nello stesso tempo lo spettatore inchiodato alla poltrona e il regista che con i singolari poteri della macchina da presa penetra nelle case dei vicini. Su La donna che visse due volte (1958) e Intrigo internazionale (1959) si sono versati fiumi d’inchiostro: analizzati da psicoanalisti, semiologi, teorici del femminismo, sono tra i film più noti e apprezzati di Hitchcock, in grado di suscitare emozioni ogni volta che li rivediamo. Se il primo più che un giallo è una favola nera, un viaggio nel lato oscuro del regista alle prese con l’illusione si sottrarre alla scomparsa la donna amata soltanto grazie alla forza manipolatrice della messinscena, il secondo ripropone i giochi delle apparenze, gli scambi di persona, le ambiguità della coppia con leggerezza e ironia esemplari. Lo stacco dal monte Rushmore in cui Eva Marie Saint è appesa nel vuoto alla cuccetta del wagon-lit accanto a Cary Grant, mentre il treno entra in una galleria, è, secondo lo stesso autore, il finale più impertinente che abbia mai girato.

UNA STORIA DI ORRORE E DI PAURA

La sfida alle ipocrisie e alle convenzioni prosegue con Psyco (1960) che affronta con inconsueta spregiudicatezza un’agghiacciante storia di orrore e di paura. Nel buio dell’inconscio cade un altro tabù, quello della figura materna, centrale nella psicologia dell’autore. Norman Bates, un indimenticabile Anthony Perkins, incarna la tenebrosa follia del serial killer moderno, anticipando il micidiale Hannibal Lecter. Il successo clamoroso del film – girato in bianco e nero con una troupe televisiva e un budget di 800.000 dollari, ne incasserà 13 milioni – rimanda all’Alfred Hitchcock Presents, la celebre serie di telefilm prodotta dal regista. Subito dopo la sigla, in cui la sua silhouette è scandita dalla “Marcia funebre di una marionetta” di Gounod, lo stesso Hitchcock si esibisce in memorabili prologhi e epiloghi, spesso divertenti e sopra le righe. Ne gira di persona soltanto una ventina, ma la serie comprende oltre duecento puntate che le assicurano un posto di primo piano tra i programmi televisivi più visti.

Nell’ultimo ventennio della sua vita, l’entusiasmo si alterna alla depressione, i trionfi ai flop. Né Gli uccelli (1963), né Marnie (1964) hanno l’accoglienza sperata, mentre dei film successivi solo Frenzy (1972) ricava un’insolita freschezza dal ritrovato set londinese. Il regista ha ormai conquistato un’enorme popolarità presso il grande pubblico di tutto il mondo. Sul mito del mago del brivido si è venuto frattanto intensificando il lavoro degli studiosi – risale al ’57 la pionieristica monografia di Eric Rohmer e Claude Chabrol e al ’67 il fondamentale libro-intervista di François Truffaut – che, capovolgendo la riduttività di molti pregiudizi correnti, avviano la consacrazione dell’autore, considerato oggi tra i più originali dell’intera storia del cinema, uno dei pochi che dai lontani segreti del muto sia arrivato alle inventive sorprese del cinema moderno. Non solo un grande narratore di storie, ma un artista affacciato con trepidazione sul destino dell’uomo e la sua inguaribile fragilità.                       

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.