Doriana Monaco racconta Agalma, il film sulla riscoperta dell’arte classica

by Michela Conoscitore

Il documentario Agalma della regista Doriana Monaco è stato tra i protagonisti della rassegna ArcheoCineMann, lo scorso dicembre, organizzata dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli: il lungometraggio, che è stato proiettato in prima mondiale al Festival del Cinema di Venezia, è frutto di tre anni di riprese della giovane regista, che è pure autrice di soggetto e fotografia. Non solo ha seguito il lavoro del direttore Paolo Giulierini, ma anche quello degli altri operatori del museo, invisibili al pubblico ma che permettono la fruibilità, per assicurare loro cure e bellezza, delle opere esposte.

Con l’arrivo di Giulierini, il MANN si è aperto sempre più al pubblico, modificando l’idea stessa di museo, rendendolo un luogo oltre che di conoscenza anche di piacere. Doriana Monaco ha raccontato questo e molto di più in Agalma: il suo documentario è un modo per visitare in modo diverso e catalizzante uno degli enti culturali più importanti d’Italia, purtroppo chiuso al momento a causa della pandemia. bonculture l’ha intervistata.

Come nasce il progetto Agalma?

L’idea per Agalma nasce in modo piuttosto semplice, durante il mio ultimo anno di università; ho studiato storia dell’arte, archeologia e cinema, in quel momento mi ero avvicinata molto al genere del documentario. Volevo creare qualcosa che non fosse prettamente scientifico e divulgativo, quel che avevo in mente doveva ruotare essenzialmente intorno all’archeologia. Successivamente, entro a far parte di FILMaP, una scuola di cinema a Napoli, ho proposto loro questo mio progetto in forma scritta, ed insieme alla produttrice Antonella Di Nocera ho presentato il soggetto al Museo Archeologico: loro, col direttore Giulierini, si sono mostrati subito entusiasti e mi hanno permesso di iniziare a girare qualche scena. Dopo aver visto il primo girato, il direttore non soltanto ha dato l’ok alle riprese, ma ha voluto anche parteciparvi.

In che modo hai collaborato col direttore Giulierini e gli altri operatori museali del MANN?

Ho partecipato e osservato tutte le loro attività, una cosa abbastanza insolita per loro: sono abituati alle telecamere, ma il mio approccio è stato diverso perché ho trascorso parecchio tempo nei laboratori di restauro e negli altri spazi del museo. Il direttore Giulierini mi ha lasciato piena libertà.

I musei, solitamente, sono visti dalla maggior parte delle persone come luoghi statici. Come hai fatto, attraverso il linguaggio filmico, che è dinamico, a raccontare questa realtà?

Questa è stata la mia domanda di partenza, infatti: come conciliare e tradurre le immagini d’arte col linguaggio cinematografico. Poi ho capito che entrambe condividono lo sguardo, diventato il filo conduttore del film: c’è il mio sguardo che combacia con quello della camera, e il gioco di specchi tra operatori del museo, visitatori e le opere stesse che osservano queste persone che si muovono intorno a loro. Rispetto alla staticità del museo, mi ero preoccupata di come raccontare dal punto di vista visivo la frammentarietà dell’opera archeologica. Poi avendo trascorso così tanto tempo in un museo, non ho potuto non notare un mondo assolutamente dinamico, l’ho associato subito ad un cantiere, e questo è un aspetto che i visitatori non notano. Dinamicità che contraddistingue particolarmente il MANN in questi ultimi anni come istituzione culturale. Comunque la scoperta di questo aspetto ha donato un altro tipo di respiro al film.

Agalma è un titolo particolare, qual è il suo significato e perché hai deciso di intitolare così il tuo documentario?

Agalma è una parola greca che significa statua, ma anche immagine, icona. Gli antichi utilizzavano questo termine per intendere la capacità di una statua di riempire un vuoto, e avvicinarsi al divino. Come ti dicevo prima, dato che i miei studi per il documentario vertevano verso la matericità di queste opere, e il loro trasferimento attraverso lo sguardo, la parola mi è sembrata particolarmente significativa ed emblematica.

Ne parlavamo prima, tra i protagonisti del documentario ci sono i restauratori del museo, il direttore, ma appunto ci sono anche le sculture, le trasformi in attori di questo film e le rendi parlanti. Perché hai scelto questo accorgimento narrativo per il documentario?

Anche questa idea è nata partendo da un elemento archeologico: gli scultori dell’antichità alla base delle statue scrivevano, in prima persona, da chi era stata realizzata e per quale motivo. Mi ha sempre colpito che loro stessi immaginassero che le statue parlassero. Visto che mi si poneva il problema di raccontare queste opere, ho pensato di non utilizzare l’archeologo o l’esperto che avrebbero spiegato la loro storia, mi è sembrato più interessante recuperare questo antico espediente, usandolo in modo creativo. E poi ho avuto la fortuna di avere come narratori due voci di un certo livello…

Certo, gli attori Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni. Com’è nata la collaborazione con loro?

Quando ho espresso questo desiderio di dare voce alle opere, parlandone ai produttori loro mi hanno chiesto di pensare qualche attore: abbiamo subito immaginato la voce di Sonia Bergamasco, dicendo loro che se avessimo avuto la possibilità di averla nel film sarebbe stato bellissimo. L’abbiamo contattata, il film poi l’hanno visto entrambi ed hanno accettato. Abbiamo registrato a Roma, ed è stata un’esperienza importante per me, la prima volta che ho diretto degli attori.

Una delle scene che mi ha colpito maggiormente è quando hai inquadrato all’esterno Napoli in un giorno di pioggia, poi ti sei spostata all’interno nel museo osservando i visitatori totalmente immersi nella loro visita, ignari di quel che stava accadendo all’esterno. Mi hai trasmesso l’idea di museo come rifugio. Quali altri messaggi hai voluto inviare allo spettatore attraverso Agalma?

 Non ho mai ragionato in termini di messaggi da trasmettere allo spettatore. Il film, e il risultato finale lo dimostra, è il trasferimento di questa mia esperienza personale, dal principio di questo progetto. Sicuramente ci sono delle tematiche che mi premeva raccontare, come la dinamicità e quindi sfatare la credenza del museo come un luogo immobile. Una scena secondo me molto importante che si ricollega a ciò, è quando lo storico dell’arte, attraverso una fotografia, racconta il cambiamento dello spazio e afferma che il museo ha un corpo che cambia. E poi quella della matericità, passeggiando tra le opere e avendo con loro un contatto, seppur soltanto visivo.

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