Intervista a Giuseppe Ragone. “Non ci sono ruoli minori se dai carattere al personaggio”

by Nicola Signorile

Non esistono piccoli ruoli, per dirla con Stanislavskij. “L’importante è dare un carattere ai personaggi”. Un carattere piuttosto definito nel caso di Luciano, il baby pensionato, tifosissimo della Juve, che sogna di trasferirsi in Costa Rica per aprire un chiringuito sulla spiaggia insieme all’amico Luigi. L’attore Giuseppe Ragone è una delle (tante) belle sorprese di Gli uomini d’oro, il noir di Vincenzo Alfieri con Giampaolo Morelli, Edoardo Leo e Fabio De Luigi, attualmente nelle sale italiane, tratto dalla storia vera del colpo milionario realizzato nel 1997 da alcuni impiegati postali di Torino.

Un ruolo importante che arriva dopo quello di Zazza, il giornalista di Lucania News che non fa mai sconti al sostituto procuratore Imma Tataranni nell’omonima fiction di successo di Rai 1. Il 33enne interprete, originario di Salandra, in provincia di Matera, nonostante la giovane età, ha già un bagaglio di esperienze importanti alle spalle, tra cinema, teatro e televisione, e tanti progetti in divenire.

Ragone, è contento della risposta del pubblico a Gli uomini d’oro?

Devo esser sincero: mi aspettavo qualcosa di più. Capisco che non c’è più l’abitudine a guardare film di genere molto inconsueti come quello di Vincenzo. Ma, dopo anni di commedie molto simili, c’è una nuova tendenza dei giovani autori a cercare strade nuove, per recuperare la fiducia del pubblico. Il vero problema è l’invasione degli ultracorpi da Oltreoceano”.

La strada è sempre ostica per il genere al cinema, non si può dire lo stesso quando si parla di narrativa o di serialità televisiva, perché?

Spesso si dice che la gente non va al cinema. Non è vero: in questi giorni gli incassi di  film come Le ragazze di Wall Street o Joker lo dimostrano. Non si vanno a vedere i prodotti italiani, c’è poca fiducia. E anche scarsa preparazione del pubblico: non si può non sapere chi sono stati Monicelli, Scola o Sergio Leone. Per far comprendere cosa è stato il nostro cinema andrebbe insegnato a scuola. Parliamo della cultura nazionale al pari di Dante o di Michelangelo”.

Venendo al film,  Luciano è la figura più divertente del film, quello con più battute, anche in dialetto. Poteva diventare una macchietta da commedia di Checco Zalone, come ha mantenuto la misura?

È necessario capire il contesto in cui si muove un personaggio. Nel caso dei film di Checco, che apprezzo sempre, siamo in un contesto grottesco.  Con Gli uomini d’oro l’humus è quello della Torino degli anni ’90. Mi sono molto documentato su quegli anni e sulla rapina. Ho cercato di rubare elementi alla realtà. Ho frequentato i club della Juve, anche perché io non seguo il calcio. Mi è servito a capire una cosa: è plausibile che una lite calcistica possa finire molto male!

La spaventa essere rinchiuso nel cliché del caratterista?

Dipende da cosa si intende per caratterista. Io ho sempre ammirato attori come Stefano Satta Flores o Enrico Maria Salerno. Quasi mai protagonisti, che in ruoli secondari sono riusciti a mostrare tante sfaccettature in interpretazioni molto diverse tra loro. Non ci sono ruoli minori se dai carattere al personaggio. Il discorso cambia se intendiamo per caratterista un attore che fa sempre lo stesso ruolo come avveniva per esempio nelle commedie sexy degli anni ‘70”.

Ma pochi registi italiani fanno scelte fuori dagli schemi come Alfieri, non crede?

Sì,  Vincenzo è stato coraggioso ad affidarmelo, finora avevo fatto solo commedie. Come lo è stato con De Luigi in un personaggio cattivo e in tanti altri aspetti del film.  In effetti in Italia si tende al typecasting (affidare a un attore sempre la stessa tipologia di personaggi, ndr)”.

Che posto occupa il teatro nella formazione di un attore? E nella sua, nello specifico?

Avevo una compagnia in Basilicata già a 16-17 anni. Poi a Roma ho frequentato una scuola di cinema e teatro, facevo spettacoli e i corti di fine corso. Ho portato avanti in parallelo il cinema e il teatro: credo sia fondamentale. Il palcoscenico per me ha qualcosa di magico. Sono reduce da 200 repliche di Sogno di una notte di mezza estate per la regia di Massimiliano Bruno, tre tournèe durante le quali ho condiviso tutto con gli altri attori. Questo ti regala qualcosa che stare davanti alla macchina da presa, che sia per il piccolo o grande schermo, non può darti”.

Però un successo come Imma Tataranni – Sostituto procuratore regala tanta popolarità e la possibilità di girare a Matera.

Purtroppo non ho girato scene a Matera, ma a Bernalda e Metaponto e molti interni a Roma. Per me sono sempre importanti le persone con cui lavori. Su quel set c’era un’atmosfera incredibile e persone che fanno le cose per amore come il regista Francesco Amato. Il successo è senza dubbio legato alla qualità del prodotto. Il pubblico la percepisce e la premia: è successo con L’amica geniale o con Rocco Schiavone. Se si investe nella qualità piano piano si vedono i risultati. Anche in tv qualcosa sta cambiando negli ultimi anni”.

Pino Zazza è un giornalista po’ stronzo, se lo lasci dire.  Si è ispirato a qualcuno?

Ma un giornalista deve esserlo. Sì, nel modo di parlare, di fare le pause o di porre domande maliziose ho pensato a giornalisti che sono anche showman come Luca Telese o Mentana. Poi nel caso di Zazza si vede che arranca, perché lavora in una tv locale, Lucania News e lì dentro deve fare tutto lui. In realtà io facevo la spalla nei provini e aiutavo il regista, cuneese, con il dialetto, poi mi ha chiesto di fare un provino per il ruolo del giornalista e li ho convinti. Dopo aver visto tante attrici, quando è arrivata Vanessa Scalera al provino, era già Imma: aveva letto i romanzi di Mariolina Venezia, una preparazione spaventosa”.

Domanda da giornalista un po’ stronzo, come piacciono a lei: chi è stata scartata prima che arrivasse Vanessa Scalera?

Non te lo dirò mai” (ride).

Nel suo curriculum c’è anche una breve esperienza in Sulla mia pelle, il film sul pestaggio di Stefano Cucchi, che aria si respirava su quel set?

“Sono stato un giorno solo su quel set. C’era una certa sacralità, grande rispetto per la storia che si stava raccontando e soprattutto per il lavoro straordinario di Alessandro Borghi che perse 15 chili per interpretare Cucchi. Lo conosco bene e lo avevo un po’ perso di vista mentre preparava il film. Rivederlo sul set mi ha sconvolto: era diventato Stefano Cucchi”.

Dove la rivedremo prossimamente?

Sto portando in giro un reading/spettacolo intitolato Pedigrì, cani di razza bastarda. Lo mettiamo in scena il 28 novembre a Roma, in un luogo occupato. L’incasso sarà devoluto alla Casa delle Donne che si occupa di donne che hanno subito violenza. Poi tornerò a Matera, a gennaio, per un mio spettacolo,Buone feste ovvero la trilogia del livore”.

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