Padrenostro, il trauma intimo e psicologico del terrorismo con un intenso (e premiato) Pierfrancesco Favino

by Nicola Signorile

Personale e originale, coraggioso nelle intenzioni, ma incerto e sovraccarico nel risultato. Padrenostro di Claudio Noce, co-sceneggiatore con Enrico Audenino, è un film non del tutto riuscito che rielabora una vicenda intima accaduta al regista nel 1976. Suo padre, il vicequestore Alfonso Noce venne ferito in un attentato per mano dei Nuclei Armati Proletari, in cui persero la vita il poliziotto Prisco Palumbo e il terrorista Martino Zichittella. Claudio aveva due anni all’epoca dei fatti, il protagonista del film, Valerio (Mattia Garaci), invece ne ha 10 e assiste, insieme alla madre (Barbara Ronchi), all’agguato al padre Alfonso (Pierfrancesco Favino) e alla morte di uno dei terroristi, a pochi passi dalla porta di casa Le Rose.

Ci vuole un grande coraggio per portare al cinema un trauma così intimo e profondo. Ed è difficile entrare nelle pieghe di scelte estetiche e di linguaggio, in questo caso dettate da ragioni più psicologiche che narrative, dove l’elemento soggettivo sembra sempre prevalere sull’intenzione artistica di Noce.

La sensazione di vulnerabilità che i Le Rose – c’è anche una sorellina, Alice interpretata da Lea Favino, figlia di Pierfrancesco e Anna Ferzetti, per la prima volta sullo schermo – portano addosso come un ingombrante bagaglio da quel maledetto giorno la si avverte sin dall’incipit in un tunnel. Un uomo sceso dalla metropolitana non riesce a respirare: l’ansia, la paura faranno parte per sempre del vissuto di Valerio. Attraverso il suo sguardo vergine viviamo gli anni ’70 della Lazio di Chinaglia, del subbuteo, di Tex Willer: c’è la cultura pop del decennio di piombo mentre il lato oscuro di quella stagione resta sullo sfondo, come un mostro delle favole, ignoto e spaventoso, proprio perché si sposa il punto di vista del figlio. Valerio è un bambino vitale, pieno di immaginazione. Nei giorni successivi all’attentato conosce Christian (Franceco Ghegi), un ragazzo poco più grande di lui, del quale non si sa nulla. Un compagno d’avventure ribelle e scanzonato, “un animale selvatico”, una specie di Huckelberry Finn che è accanto a Valerio nelle prime scorribande urbane che allarmano la famiglia. I due ragazzi appaiono sospesi in un vivido altrove, fino a quando il misterioso Christian non riappare in Calabria, dove la famiglia Le Rose è in visita a casa dei nonni paterni. Spunta all’improvviso, così come scompare, suggerendo più volte allo spettatore una chiave surreale che però si rivela presto solo un depistaggio: il tentativo di spingere l’opera sul piano dell’immaginazione e dei ricordi reali o immaginari del protagonista, adulto che guarda a quei giorni di un lontano passato, sovraccarica Padrenostro, facendogli smarrire nella parte centrale l’asse narrativo portante.

Piuttosto vorremmo sapere qualcosa in più del vicequestore Alfonso Le Rose, del significato di mezze parole pronunciate al telefono o durante una partita a carte con l’amico e collega Francesco Guarna (Antonio Gerardi), del lavoro che lo rende bersaglio dei Nap. Ma a prevalere, ancora una volta, è il sentire di Valerio al quale siamo accomunati: il bambino sa (e noi sappiamo) poco di Alfonso, del suo lavoro, dei valori e principi che informano la sua vita; desidera (e noi desideriamo) capire di più di quell’uomo così vicino, ma così, irrimediabilmente, lontano.

Anche i nomi vengono cambiati. L’8 giugno 1976 una telefonata avverte Alfonso che il suo caro amico è stato assassinato dai terroristi. È il giorno in cui a Genova le Br ammazzarono il magistrato Francesco Coco e due uomini della sua scorta. Vista la citazione, perché non lasciare il vero nome del giudice? Se si vuole trarre un film da una vicenda realmente accaduta, peraltro parte della biografia pur romanzata del regista, perché cercare goffamente di prenderne le distanze, dribblando un realismo necessario in questi casi?

Padrenostro non è un film sul terrorismo. Gli anni di piombo sono un trauma irrisolto che il nostro cinema ha sempre sfiorato, narrato di riflesso, inquadrato di sbieco. Raccontando drammi interiori, più che indagarne le ragioni e le pulsioni. Sancendo, una volta per tutte, la prevalenza del personale sul politico. Salvo rare eccezioni, il nostro cinema ha raccontato le ripercussioni – psicologiche, famigliari, relazionali – della Storia sull’individuo, più che la Storia stessa. Attraverso pellicole di grande pregio artistico, sia chiaro – Tre fratelli di Rosi, La tragedia di un uomo ridicolo di Bertolucci, La seconda volta di Calopresti o, per tornare al recente passato, a Dopo la guerra di Annarita Zambrano con Giuseppe Battiston – ma poco interessate a raccontare il contesto, la battaglia di idee e di visioni, il ribollire rabbioso di quegli anni. Mancanza di coraggio dei nostri autori? Paura di finire nel tritacarne dei giudizi di politici e storici?

Il discorso è valido ed estendibile ad altri periodi controversi della storia italiana, che registi e sceneggiatori si guardano bene dall’affrontare: si pensi al ventennio fascista o a Tangentopoli, se non declinata nella pavida, intimista, versione dell’Hammamet di Gianni Amelio. La letteratura non ha la stessa ritrosia, si veda M di Antonio Scurati, la televisione ci prova (un esempio è la trilogia 1992-93-94), Marco Bellocchio rappresenta una grande eccezione, da fine e ardito cineasta quale resta. Tuttavia rifugiarsi nel privato è la via maestra, l’intimismo la coperta di Linus. Padrenostro non se ne discosta, rispondendo più all’esigenza tutta personale di esprimere il fiume in piena interiore che investe Valerio dopo aver visto quello che purtroppo ha visto.

Un turbine di pensieri, paure, dubbi, affidati ai bellissimi occhi dell’esordiente Mattia Garagi che regge l’urto di un film che lo vede presente praticamente in ogni inquadratura. Il senso di vulnerabilità viene a galla continuamente nella seconda parte, quella calabrese. Già durante il viaggio in auto quando ritorna il tunnel e la difficoltà di respirare. Poi quando una moto sorpassa i Le Rose e sembra un punto di non ritorno. Meno riusciti i tentativi di imboccare la via visionaria con gli insistenti ralenti, i lirismi eccessivi, i momenti musicali enfatici che stridono con le immagini sullo schermo. Su tutti, l’attentato ripercorso sulle note di Buonanotte Fiorellino di De Gregori: davvero troppo e troppo già visto. Il contrasto tra musica (sognante o spensierata) e immagini (violente) è ormai una scelta usuale, spesso comoda, ma il tono e le atmosfere di Padrenostro rendono il tutto un po’ forzato mentre Impressioni di settembre calza a pennello alle ultime battute del film.

Al netto di queste forzature, la regia di Noce è attenta, efficace, capace di regalare diversi momenti convincenti alla sua terza prova, dopo Good Morning Aman e La foresta di ghiaccio. I primi approcci dietro una telecamera di Valerio durante una cena tra amici, con Sereno è di Drupi in sottofondo, sono un piccolo angolo di spensieratezza che apre uno squarcio sul futuro. Lo sguardo ansioso dei ragazzi che guardano Alfonso dormire, disteso nel letto nella grande casa di famiglia dove è cresciuto, cita Il Cristo Morto del Mantegna e contemporaneamente Il Ritorno di Andrej Zvyagintsev, Leone d’Oro a Venezia nel 2003. Emozionante quella mano sul ventre filiale tesa a frenare un attacco di panico incombente che rappresenta il primo autentico incontro tra padre e figlio post-trauma. Quel “respira con la pancia” teso a rassicurare, a infondere sicurezza e protezione, pronto a essere capovolto. Da padre a figlio, e poi, da figlio a padre, nell’istante, l’unico, in cui finalmente Alfonso si libera, mostrando quello che sta provando.

Il rapporto tra i due è costruito sull’assenza/presenza del genitore, sulla ricerca smaniosa da parte di Valerio del corpo massiccio e rassicurante di Favino: una quercia sotto cui ripararsi, solo scalfita dai colpi dei mitra. O almeno così viene percepito da suo figlio. La relazione è episodica, irrisolta, fatta di non detti e sospensioni, di affetto e repulsione, di gelosia (nei confronti dell’amico Christian, reo di “rubare” l’attenzione dell’uomo) e richieste di attenzione. Un bisogno d’amore insoddisfatto che leggiamo negli occhi del bambino mentre ricerca invano il papà nelle stanze vuote della casa in Calabria. “Perché non ti basto io?”, gli chiede sua madre, “Perché tu non sei papà”, è la laconica risposta. Padrenostro è prima di tutto una preghiera laica rivolta a un genitore che risponde solo a intermittenza a quel bisogno.

La potenza scenica e l’intensità di Pierfrancesco Favino, anche tra i produttori di Padrenostro, è indiscutibile, riconosciuta anche dalla giuria di Venezia 77 che gli ha attribuito a sorpresa la Coppa Volpi, per un ruolo che non lo vede protagonista assoluto. Un premio che sembra quasi un tributo alla professionalità di uno dei migliori attori in circolazione, una consacrazione internazionale che arriva dopo interpretazioni da mattatore come il Buscetta del Traditore e il Craxi di Hammamet, per le quali ha fatto incetta di premi in Italia. Molto buono anche il resto del cast. La mamma Gina è interpretata dalla brava Barbara Ronchi, attrice in piena ascesa che ha già mostrato corde molto differenziate, tra cinema (Sole di Sironi, Tornare di Cristina Comencini e il prossimo film di Francesco Bruni Cosa Sarà) e tv (La luna nera, Imma Tataranni).

Poi, il sempre ottimo Antonio Gerardi, capace di dare corpo a un personaggio anche in pochissime scene, e un coro di comprimari di mestiere nei panni della famiglia d’origine calabrese di Alfonso, Anna Maria De Luca (nonna Maria), Mario Pupella (nonno Giuseppe) e il bravissimo Francesco Colella (visto di recente in Aspromonte di Calopresti e nella serie internazionale ZeroZeroZero). Curiosità: Valerio adulto ha il volto dello scenografo del film, tre volte David di Donatello, Paki Meduri.

Il contrasto è la chiave per la fotografia di Michele D’Attanasio che richiama i colori caldi dell’epoca, la solarità di una Roma intanto attraversata da auto della polizia sfreccianti e dai rumori delle scariche di mitra mentre nelle sequenze calabresi rimanda alle distese gialle di Io non ho paura di Salvatores. Anche qui i discorsi della nonna sugli angeli custodi, i rumori sospetti in soffitta, gli ancestrali paesaggi calabresi, antiche credenze e vecchi guaritori solitari tentano di mischiare le carte, di donare alla pellicola una sfumatura misteriosa, finendo per confondere lo spettatore.

Dopotutto è proprio Padrenostro a “respirare con la pancia”, cavalcando le instabili onde emotive del regista, toccando le sue corde più intime, senza spingersi troppo in profondità, forse per pudore, forse per timidezza d’autore. Questa può essere la chiave di lettura di un film che vuole sbrogliare la matassa di un trauma fin troppo personale. E che cerca di chiudere il cerchio, immaginando, quasi sognando, che un incontro fortuito in un’estate qualunque possa trasformarsi in un’amicizia impossibile tra due vittime di quegli anni terribili.

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