La dark lady Barbara Stanwyck

by Orio Caldiron

Nel ricambio delle generazioni, il pubblico finisce con l’avere la memoria corta. A farne le spese sono soprattutto le star di lungo corso, le intramontabili che stanno in sella per parecchi decenni senza arrendersi agli assalti sleali dell’età. Belle ma non bellissime, spesso sensuali e talvolta perfino sexy, il loro segreto si chiama talento.

La straordinaria energia con cui s’impongono nel fotogramma senza alcuna indulgenza per le scorciatoie della mediocrità ne fanno le interpreti ideali dei sogni dei cineasti più esigenti. Se si apre l’album della loro prodigiosa carriera sembra di sfogliare gli annali della storia del cinema, dove si danno appuntamento le stelle che amano il set e detestano il gossip. Barbara Stanwyck – nasce a New York il 16 luglio 1907 e scompare a Santa Monica il 20 gennaio 1990 – è una di loro, il più discreto dei mostri sacri del firmamento hollywoodiano.

Chorus girl di Ziegfeld, ballerina di night, debutta in teatro prima di passare al cinema. Sin dall’inizio degli anni trenta s’impone con una galleria di ragazze energiche e volitive che fanno le dure. Il primo a intuirne le qualità di interprete fuori dai cliché è Frank Capra che in Proibito (1932) le offre l’occasione di dar vita alla donna appassionata e vulnerabile, pronta al sacrificio ma estranea al compromesso. Sospesa tra le gaffe del basso ceto da cui proviene e le lusinghe dell’integrazione altoborghese, la protagonista di Amore sublime (1937) di King Vidor dà vita a una delle interpretazioni più travolgenti della sua carriera che fornisce inesauribile materiale di discussione alla futura critica femminista.

Lady Eva

Sin dalle prime immagini di Lady Eva (1941) di Preston Sturges si capisce che siamo nel paradiso terrestre della screwball, dove l’avventuriera che visse due volte, tirando fuori dalla gonna le lunghe gambe insidiose, farà inciampare Henry Fonda, l’imbranato esperto di serpenti. Nel doppio ruolo di Jean/Eva l’attrice fa scintille, ma non è meno a suo agio nella parte di Sugarpuss, la sciantosa di Colpo di fulmine (1941) di Howard Hawks. Il suo slang colorito seduce il prof. Gary Cooper, il glottologo che con sette luminari lavora alla grande enciclopedia. Se il riferimento a Biancaneve, nani compresi, è esplicito, Arriva John Doe (1941) – la commedia populista di Capra, in cui ha già fatto coppia con il grande Cooper – ricorda Cenerentola a ruoli capovolti. Memorabile il finale in cui all’ultimo momento la cinica giornalista dal cuore tenero si redime abbracciando il suo uomo all’ultimo piano del grattacielo newyorkese.

La fiamma del peccato

Quando al primo incontro Phyllis Dietrichson scende le scale sfoggiando la parrucca bionda e la catenella alla caviglia non ci vuole molto a capire che Fred MacMurray è già spacciato. Perversa, meschina, feroce, la dark lady di La fiamma del peccato (1944) di Billy Wilder fa dell’attrice un’icona del noir, inaugurando la schiera delle fatali con cui si conclude la sua ultima stagione. Se prima si accontentava di fare strage di cuori, ora tira fuori gli artigli come capita in Lo strano amore di Marta Ivers (1946) di Lewis Milestone, Il romanzo di Thelma Jordan (1949) di Robert Siodmak, La confessione della signora Doyle (1952) di Fritz Lang, con Marilyn Monroe in una delle sue prime particine, quasi un passaggio di testimone. Non ricordo chi l’ha detto, ma quando vedo Marilyn so che gli uomini sono deboli, quando vedo Barbara Stanwyck so che le donne sono forti.

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