Henry Fonda, il mito da Ford a Lumet

by Orio Caldiron

Nessun altro tra i divi di Hollywood ha la camminata flessuosa e sensuale di Henry Fonda, né John Wayne abituato a buttarsi tutto in avanti, né Cary Grant con la sua eleganza felina, né Gary Cooper che si muove sempre a qualche centimetro da terra. Primo dei cinque figli di Herberta Jaynes e di William Brace Fonda, nasce a Grand Island nel Nebraska il 16 maggio 1905, ma si trasferisce presto a Omaha dove il padre ha una tipografia. Nel 1925 Dorothy Brando, la madre del piccolo Marlon, l’accoglie nell’Omaha Community Playhouse. Quattro anni con gli University Players e poi finalmente nel ’34 l’approdo a Broadway.

Nel cinema l’incontro decisivo è quello con John Ford che lo dirige in tre film di seguito facendolo entrare subito nel mito. Il giovane Lincoln di Alba di gloria (1939) scende dal piedistallo per diventare l’eroe quotidiano che partecipa ai festeggiamenti dell’Indipendence Day: una delle interpretazioni più incisive e poetiche dell’intera carriera. Il colono di La più grande avventura (1939) risale alle origini del Sogno Americano ai tempi della guerra d’indipendenza rievocata come la nascita della nazione. Il protagonista di Furore (1940), dal romanzo di John Steinbeck, esce di prigione per scoprire che la sua famiglia ha lasciato la fattoria, come gli altri agricoltori dell’Oklahoma ridotti in miseria dalle tempeste di sabbia e dalla rapacità delle banche. L’odissea degli Oakies che vanno verso la California dà vita a uno dei più struggenti road-movie del cinema, in cui il dramma dello sradicamento s’intreccia al miraggio della Terra Promessa. Tom Joad – sospeso tra pessimismo della Grande Depressione e ottimismo del New Deal – è la sua più memorabile creazione.  Il suo fantasma – come suggerisce “The Ghost of Tom Joad”, la canzone di Bruce Springsteen del 1995 – sarà sempre alle spalle dell’America per ricordarle le sue promesse non mantenute.

Furore

Nel dopoguerra si ritrova con Ford per Sfida infernale (1946), dove è Wyatt Earp, il leggendario westerman che incarna con distacco, voce sommessa, tenera ironia. Un eroe antieroe, segnato dalla leggerezza di chi si dondola sulla sedia sotto il patio e partecipa con Clementine al ballo per la futura chiesa di Tombstone, gioioso rito di fondazione della comunità civile. Dopo una fortunata parentesi teatrale, che lo tiene a lungo lontano dal set, La parola ai giurati (1957) di Sidney Lumet, conferma lo spirito liberal dell’icona di un’altra America aperta alle ragioni della diversità. Nei decenni seguenti quando la sua figura si va facendo più esile, il suo volto più scarno, non si contano i ruoli di generale, ammiraglio, candidato alla presidenza, segretario di stato, e finalmente presidente Usa. Sposatosi cinque volte, sono ormai attori affermati anche i figli Jane e Peter e la nipote Bridget. Sarà Jane a ritirare l’Oscar come miglior attore assegnatogli per Sul lago dorato (1981), il suo congedo dallo schermo, pochi mesi prima della morte, avvenuta il 12 agosto 1982 nella sua casa di Bel Air.

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