Cuore nero di Silvia Avallone , l’abisso e «il buono» che è in ognuno di noi

by Antonella Soccio

C’è chi ha definito «furbo» il nuovo romanzo, già campione di vendite, di Silvia Avallone “Cuore nero” edito da Rizzoli e candidato alla quinta edizione del Premio letterario nazionale I fiori blu di Foggia.

Si devono attendere oltre 300 pagine, colme di flashback e di fascinosissimi artifici letterari con una scrittura sempre governata da una eccellente maestria, per leggere e conoscere la scena madre al centro del buco nero della protagonista, Emilia, e per rimanere come incantati sul crinale di un abisso e dentro un orrore, così simile a tante altre vicende di cronaca dei giornali locali italiani. No spoiler, ovviamente.

Ma solo alcune suggestioni. La barca, una omosessualità sottotraccia, l’amicizia che sfuma nella seduzione inconscia, il conflitto tra il mix di ricchezza, bellezza e conseguente carisma con la mediocrità, l’invidia che si trasforma in violenza. Una relazione amicale tra pari che sottolinea le impari differenze.

È solo guardando la straordinaria ed elegante serie tv Netflix, Ripley, tratta dal saccheggiatissimo The Talentend Mr Riply di Patricia Highsmith, che si possono notare i rimandi, le affinità, l’attrazione per i buio e le luci di Caravaggio e il percorso fatto da certa sociologia della pena sui carnefici.

Non c’è da parte di Avallone nessun feticismo nell’indagare il cuore nero della sua protagonista, non è infatti il delitto il centro della sua narrazione benché i lettori vi arrivino con un desiderio cupo, a volte anche odiando le estenuanti divagazioni dell’ultima parte del testo, che allontanano sempre di più la scena e il famigerato raptus della nera. Ad Avallone a differenza del Nicola Lagioia de La città dei vivi non interessa capire cosa brulica in chi compie un atroce e disumanizzante assassinio.

Non è neppure la costruzione dell’identità di Emilia nel rapporto col suo alter ego “bianco” Bruno a tenere incollati, a differenza del talentuoso Mr Ripley, dove ci si affeziona alla sua fuga e alle sue menzogne camaleontiche.

Il romanzo di Silvia Avallone è anzitutto una riflessione sulle parole e sul silenzio. Sulla capacità di fare vuoto attorno ad un dramma, che non si riesce a nominare, a dire. E quindi a riconoscere. Sulla possibilità che si dà a se stessi di rinascere scegliendo il bene e l’amore, anche grazie alla mediazione della cultura e della sublimazione, laddove c’è stata sofferenza, degrado morale, soggiacenza agli istinti animaleschi.

L’autrice anche nel corso della presentazione de I fiori blu ha rimarcato come l’aver fatto parte di un progetto di lettura e scrittura nell’Istituto penale minorile maschile di Bologna le abbia insegnato, in termini di vita e umanità, quanto le parole possano essere delle gabbie.

Delitto e Castigo.

La questione carceraria è al confine tra il diritto penale, la cultura costituzionale, la politica criminale, la dimensione socio-sanitaria, l’architettura e l’urbanistica, la pedagogia, la sociologia generale e del diritto, la filosofia morale e giuridica, ma anche la storia e la geo-politica.

La pena in quanto afflizione esaudisce desideri collettivi di vendetta e serve principalmente a neutralizzare le persone custodite.

«Detenuti, la parola ha una stasi, una morte dentro. Per scrivere questo romanzo ho vissuto da cittadina, il potere del bene ce l’abbiamo tutti basta non voltarsi dall’altra parte», ha detto Avallone nel corso dell’intervista.

Ed ecco allora che voci di chi ha visto, vissuto e subito la prigione, diventano in Cuore nero uno sguardo retrospettivo, che riesce grazie ad una scelta interessante compiuta dall’autrice, ossia quella di affidare la voce narrante a chi ha vissuto da vittima, Bruno, il maestro rimasto orfano per una strage di montagna, che scioglie il suo dolore nell’amore per Emilia.

Il romanzo è costruito come una assidua ricerca di profondità, si va sempre più a fondo e si aggiungono dettagli temporali e narrativi alle storie personali dei due protagonisti, ai loro sentimenti, alle loro paure, alla loro angoscia di vivere.

«Grazie per avermi ricordato che, persino in me, c’è del buono», si legge sul finale.

La lettura è controversa, si resta certamente affascinati anche dai personaggi che girano attorno ai due protagonisti, in particolare il padre di Emilia e la colta sua compagna di cella, ma allo stesso tempo restano degli interrogativi.

La sospensione del giudizio o forse peggio l’assoluzione della banalità del male non fa parte essa stessa di una malìa per il corpo docile e civilizzato che cede agli impulsi e dimentica troppo spesso le vittime?

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