«Il demone della perfezione è stato sempre presente nella vita di Sylvia Plath». Antonella Grandicelli entra nei ricordi e nella voce della poetessa americana

by Michela Conoscitore

Immergersi nell’altro e saperlo comprendere, oltre che conoscere, è un ‘compito’ che richiede molta empatia e un enorme sforzo per uscire da sé stessi. Ciò significa assumere un differente punto di vista sulla globalità del vivere, inteso come la somma delle molteplici esperienze, sentimenti e fasi che sperimentiamo durante il nostro passaggio sulla Terra. La scrittrice Antonella Grandicelli vi è riuscita brillantemente, perché nel suo nuovo romanzo, Le api sono tutte donne (Morellini Editore), ha condiviso con i lettori la biografia di una delle poetesse più celebri del Novecento, Sylvia Plath.

Sulla poetessa da sempre aleggia la vicenda del suicidio, avvenuto nel 1963, l’ultimo dei tentativi andato a buon fine. Quasi come una investigatrice, Grandicelli si è chiesta il perché di quel gesto, e poi è andata oltre perché Sylvia non è stata soltanto la suicida, Sylvia è stata anche la fervida sognatrice, la scrittrice acutissima, la donna innamorata, la madre estatica, la moglie tradita sull’orlo del baratro. Antonella Grandicelli ha saputo cogliere, nella loro integrità, tutte le sfaccettature di Sylvia Plath per farla conoscere davvero, ‘ripulita’ dalla fama e restituendola come essere umano.

bonculture l’ha intervistata.

Dott.ssa Grandicelli nel suo nuovo libro, Le api sono tutte donne, è entrata dentro la mente e nei ricordi di Sylvia Plath: tra le voci più geniali e innovative della poesia mondiale del Novecento, qual è stata la preparazione che le ha permesso di tradurre in romanzo l’esperienza di vita della poetessa?

Raccontare la vita e l’anima di una delle menti più complesse e geniali della letteratura del secolo scorso, facendola parlare con la sua voce, è stata da subito per me una grande sfida e una grande responsabilità. Quando mi è nata l’idea di scrivere una biografia romanzata di Sylvia Plath, ho avuto subito chiaro come obiettivo inderogabile il rispetto, a partire da quello filologico. Prima di intraprendere la stesura vera e propria del romanzo, ho trascorso molti mesi leggendo tutta la produzione letteraria che lei ci ha lasciato, sia narrativa che poetica, studiando in profondità non solo il dato biografico utile alla narrazione, ma anche il suo lessico, le parole che usava nella quotidianità dei diari, quelle con cui si rivolgeva alla madre nelle lettere e quelle straordinariamente moderne della poesia. Un lavoro minuzioso e molto impegnativo per entrare nel suo mondo, nel suo modo di vivere e vedere la vita e le relazioni, ma per me l’unica strada per ottenere una voce autentica e credibile. Per restituire davvero Sylvia Plath.

Nel suo libro compie un cammino a ritroso nella vita della poetessa. Tutto inizia dalla fine, tanto ardentemente desiderata da Sylvia. Perché ha scelto questa struttura narrativa?

Ciò che principalmente si conosce di Sylvia Plath è l’esito drammatico della sua vita. Molto si è detto e molto si è scritto sul suo suicidio e molto meno di ciò che vi stava alle spalle. Mi è sembrato pertanto da subito assurdo far arrivare il lettore ad un finale già conosciuto e fin troppo dibattuto. Più interessante per me fare un viaggio a ritroso, a partire da quel momento per capire come si era giunti fin lì. Per tentare di comprendere chi era davvero Sylvia Plath, focalizzando l’attenzione su quella che è stata la sua vita e non sulla sua morte.

L’infanzia, la giovinezza, la maternità: tutte queste fasi per Plath sono segnate dal ‘demone’ della perfezione, un obiettivo che si prefigge di raggiungere ma sembra si neghi lei stessa, forse anche come ribellione all’ambiente in cui è cresciuta. Perché non è riuscita a sottrarsi?

La perfezione è terribile, non può avere figli”, questo è il verso iniziale de I manichini di Monaco, una delle sue ultime poesie. Il demone della perfezione è stato sempre presente nella vita di Sylvia fin dall’infanzia, ne ha condizionato le scelte, i rapporti umani, il destino in ogni fase. E lei stessa ne è stata consapevole, ha capito che era un nemico contro cui avrebbe sempre combattuto una battaglia vana, eppure inevitabile. La figlia perfetta, che soddisfa tutte le aspettative dei genitori; la studentessa perfetta, che raggiunge sempre il massimo risultato e centra tutti gli obiettivi; la moglie perfetta, che asseconda e sostiene il marito nella sua ascesa al successo; la madre perfetta, che si occupa amorevolmente dei figli; la poetessa perfetta, riconosciuta come tale da tutto il mondo letterario. Tutti ruoli che la Plath ha tentato di interpretare in un intreccio via via sempre più parossistico, trasformato infine in un’ossessione fatale. Sulla sterilità della perfezione lei non aveva dubbi, sapeva che era un miraggio proiettato da una stuttura culturale e sociale impositiva, patriarcale e manipolatoria, ma era una corrente troppo forte a cui sottrarsi, se non uscendo definitivamente dal flusso.

Il rapporto di Sylvia con gli uomini della sua vita, il padre e il marito, Ted Hughes: la poetessa associa principalmente al maschile il suo senso di fallimento?

Sylvia Plath è cresciuta nell’America degli anni ’50 del Novecento, in un ambiente culturale ancorato fortemente ai concetti del puritanesimo, in cui la donna soddisfa il suo ruolo all’interno della società come moglie e come madre, adeguandosi e rispettando precisi codici di comportamento che la condannano alla perfezione di un’esteriorità esibita e le vietano di fatto qualunque espressione della femminilità che non sia quella codificata e attesa. Il rapporto con la figura maschile è dunque sempre stato per Plath un rapporto conflittuale e oscillatorio tra momenti di ribellione feroce e altri di ricerca dell’approvazione. La morte prematura del padre Otto Plath lo ha trasformato ai suoi occhi di bambina e adolescente in una divinità oltremondana, un’ombra incombente e mai raggiungibile, inevitabilmente inquinante ogni altra figura maschile, al punto che spesso, sia a livello inconscio ma anche cosciente, l’immagine del padre e quella del marito Ted Hughes si sovrappongono, si confondono, rendendo ambiguo il dialogo con uno e con l’altro all’interno delle sue poesie.

Il titolo del suo romanzo è significativo, quasi una rivendicazione femminista. Quindi pensando all’apporto del femminile nella vita di Plath, le figure della madre e dell’amica poetessa Anne Sexton, di cui lei racconta, rappresentano più degli esempi o delle rivali per Sylvia?

All’interno di un sistema culturale che spinge le donne ad eguagliare la perfezione di un modello imposto, ogni donna finisce per essere un esempio e al tempo stesso una rivale per le altre. Questo sono dunque per Sylvia la madre Aurelia Schober Plath e l’amica Anne Sexton. Mentre però il conflitto tra l’esempio e la rivalità con la madre si gioca più in negativo, sul piano di un’immagine di abnegazione e sacrificio che le provoca più volte rigetto e ribellione, ma anche senso di inadeguatezza e fallimento, quello con la Sexton è un conflitto che le vede impegnate entrambe dalla stessa parte, nel tentativo, spesso estremamente doloroso, di strappare le convenzioni del modello per riappropriarsi della possibilità di scegliere per sè.

Sylvia e Anne Sexton sono figlie dell’epoca contemporanea, eppure scisse tra la sfacciata modernità e il perbenismo delle loro madri. Il desiderio di morte le salva da questa insanabile frattura?

Così come Sylvia, anche Anne Sexton vive con profondo disagio l’incapacità di allinearsi alle aspettative dell’educazione ricevuta e della società. Giovani e belle, nate nello stesso sobborgo di Boston, benchè molto diverse tra loro per ceto sociale e percorso di studi, Sylvia e Anne portano nella poesia la loro sensibilità profonda e un’aggressività quasi animalesca, che ne contraddistingue il verso. Si conoscono, si annusano, per scoprire poi che la dannazione che mastica i loro giorni è la stessa. Entrambe sentono nella morte un’attrazione difficile da domare, un varco nel quale sfinire un dolore esistenziale sempre più insopportabile.

Forse essere madre mi impediva di essere una scrittrice?”, fa chiedere a Sylvia, ad un certo punto del romanzo, in un momento di stasi creativa. La vita della poetessa permette ai lettori di riflettere su ogni aspetto dell’essere donna. La maternità ha impoverito o ha arricchito la voce poetica della poetessa?

A un certo punto della sua vita Sylvia Plath ha desiderato essere madre, ha sofferto per una maternità che ritardava e nel momento in cui lo è diventata ne è stata felice, è importante sottolinearlo. Non dimentichiamo però che siamo in un periodo storico in cui era ancora la donna a farsi carico di quasi tutta la totalità della cura dei figli. Con due bambini piccoli il tempo da dedicare alla scrittura era poco e, nonostante una parziale divisione dei compiti con il marito Ted, era a lei che spettava prendersene cura nelle esigenze quotidiane, così come si prendeva cura della casa, del giardino, dell’orto. La fatica che ciò comportava, la difficoltà a recuperare la concentrazione, le poche ore di sonno, la lasciavano spesso spossata, priva di energie e incapace di portare avanti la scrittura secondo le sue ambizioni. Eppure, appartengono proprio al periodo della maternità molte tra le sue poesie più belle, come se la presenza dei figli, il loro sguardo innocente e privo di pre-giudizi sul mondo, avesse affinato anche il suo sentire poetico, rendendolo primordiale e potentissimo come mai prima.

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