“La musica, la grandissima assente nel nostro paese”, Omar Pedrini e la storia della musica in scena con Alessio Boni

by Francesca Limongelli

Sul palco ci sarà prima di tutto l’amicizia. Quella che lega da un decennio l’attore Alessio Boni e il musicista Omar Pedrini, bergamasco il primo, bresciano il secondo, “separati solo dal lago d’Iseo” come amano ironizzare entrambi, ricordando fra l’altro la storica rivalità tra le due città lombarde.

Il loro spettacolo “66/67” ha debuttato al Napoli Teatro Festival la scorsa estate e dopo i sold out milanesi approda in Puglia, stasera a Barletta al Teatro Curci e a Bari domani 1° novembre, prologo della stagione 2019/2020 del Teatro Palazzo, diretta da Titta de Tommasi (sipario h 21.00, info 080/97.53.364 – 366/1916.284).

Dodici canzoni, recitate, raccontate e sviscerate dalla voce recitante di Alessio Boni e interpretate in musica da Omar Pedrini  e dalla sua band formata da Stefano Malchiodi alla batteria, Larry Mancini al basso e Carlo Poddighe alle tastiere: “66/67” è un concentrato di storia e cultura musicali ma non solo, un’occasione preziosa per andare a fondo di testi che hanno fatto la storia del Novecento, bandiere di più generazioni che le hanno ascoltate e cantate non sempre in maniera consapevole.

“Spesso ascoltiamo le canzoni senza soffermarci troppo sui testi” nota Pedrini, che a proposito dello spettacolo porta ad esempio uno dei brani che lo compongono “Walk on the wild side” di Lou Reed: “siamo abituati a sentirla ora come colonna sonora di uno spot di automobili, ma in questo brano si parla di orge, di situazioni al limite ed è questo l’obiettivo del lavoro fatto con Alessio e con la giornalista Nina Verdelli che ha lavorato ai testi”. È pieno di cuore ed entusiasmo il musicista bresciano quando al telefono ci parla del loro lavoro, “nato tra un bicchiere di vino e un altro”. La prima domanda è quindi banale, ma d’obbligo:

All’apparenza avete formazioni e storie artistiche differenti, come è nata la collaborazione con Alessio Boni?

La collaborazione scaturisce da un’amicizia decennale e dall’aver scoperto, a un certo punto, di esserci invertiti i mestieri. Al liceo classico il mio sogno era di fare l’attore e quando ci siamo conosciuti con Alessio, tra le chiacchiere, è venuto fuori che allo stesso tempo lui si immaginava rockstar. È così che abbiamo deciso di far incontrare le nostre anime artistiche e di approfittare in un certo senso dello spettacolo per trascorrere un po’ di tempo insieme. Siamo entrambi in un momento professionale estremamente felice: Alessio è a mio avviso nel momento più splendido della sua carriera, mostruosamente bravo, io sto vivendo un periodo ottimo con il mio tour e quindi “66/67” beneficia di tutto ciò.

Il titolo del vostro lavoro allude ai vostri anni di nascita: siete nati a ridosso del Movimento del’68, ma eravate comunque troppi giovani per quello del’77: quanto di questi due momenti troviamo nello spettacolo?

C’è tantissimo, io ho pescato e continuo a pescare moltissimo dagli anni Settanta e dai primi Ottanta: la musica, le canzoni di quel periodo fanno parte del mio imprinting, anche se ero bambino. Partiamo da Bob Dylan, 1964, e anche se non eravamo ancora nati quella è stata la musica che ci è “girata intorno” per dirla alla Fossati, che ha segnato la nostra giovinezza, che ha accompagnato momenti, cambiamenti, viaggi, quotidiano. Le canzoni scandiscono il tempo più di qualsiasi altra cosa, a volte le possiamo dimenticare, ma poi quando le riprendiamo hanno la forza unica di riportarci nel tempo in cui le ascoltavamo, facendoci riprovare sensazioni, risentire odori e umori. E le 12 canzoni che compongono lo spettacolo parlano di noi.

Per un musicista come te, che esperienza è il teatro?

Per me il teatro è una disciplina molto importante, qualcosa di diversissimo dal palco dove faccio i concerti e dove oggettivamente posso fare un po’ quello che voglio. A teatro il pubblico ti scruta, guarda ogni movimento, è più vicino e si accorge di tutto. Mi ha sempre affascinato, ma devo dare merito all’attore Nicola Nocella, vostro conterraneo, di avermi permesso di entrarci vivendolo a pieno, quando qualche anno fa abbiamo messo in scena al Franco Parenti di Milano “Sangue impazzito”.

Di cosa si tratta?

Ero uno spettacolo su John Beluschi, nato anche in questo caso quasi per gioco e da alcune battute scambiate con Nocella su un set di Pupi Avati, dove io facevo un piccolo cameo. Dissi a Nicola che lo trovavo molto somigliante a Belushi e lui mi rispose di essere pugliese, dirimpettaio quindi dell’Albania dalla quale veniva Belushi. A partire da questa conversazione è nato un lavoro rimasto in programmazione un mese intero, cosa affatto scontata ed è nata la mia relazione più stretta col teatro. Nicola mi ha dato moltissimo, come moltissimo mi sta dando Alessio: da loro ho imparato la liturgia del teatro, qualcosa che non fa parte del mio mondo, ma che ho assorbito come una spugna.

Alcune canzoni, lo riportate sia tu sia Boni, sono vere e proprie poesie, qualche antologia scolastica (quelle più illuminate) le inserisce fra i testi di approfondimento, la musica è una grande assente nella nostra scuola eppure siamo il paese del melodramma. Come si colma questo gap?

Temo non si colmi e mi fa enorme rabbia dirlo. Sono trent’anni che porto avanti la mia battaglia per avere una legge sulla musica che la porti davvero nelle scuole, insegnandola in maniera seria. Dal’600 in poi la musica è stata centrale nella formazione dei giovani, oggi nel nostro Paese, nel Paese del belcanto è una grandissima assente. Se in Italia ci chiediamo perché le radio passano brutta musica, dobbiamo interrogarci su un problema che è a monte. Ci sono grandissimi buchi culturali in questo senso: un bambino che non conosce nemmeno un’aria di Verdi ha una lacuna grave. Non è ancora chiara la forza della musica: le canzoni avvicinano, la musica rende curiosi, ci avvicina all’altro e in questo senso sono convinto ci sarebbe meno razzismo se avessimo una maggiore formazione musicale.


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