Massimo Popolizio: «M è il nostro atto politico. Far rivivere quelle parole per noi è un dovere. Farlo bene, invece, è il nostro lavoro».

by Felice Sblendorio

Massimo Popolizio è in scena da quasi due mesi con lo spettacolo dell’anno: “M. Il figlio del Secolo, l’affresco sul fascismo tratto dal romanzo del Premio Strega Antonio Scurati. Dopo il fortunato debutto al Piccolo di Milano, la compagnia diretta da Popolizio sarà in scena fino al 3 aprile al Teatro Argentina di Roma. La produzione, impreziosita da altri 17 attori fra cui spiccano Tommaso Ragno, Sandra Toffolatti, Raffaele Esposito e Paolo Musio, è un circo furioso che racconta l’ascesa al potere di Mussolini dal 1919 al 3 gennaio 1925. In un varietà nero di chiara ispirazione brechtiana, Popolizio dirige una feroce allegoria del potere fascista che, oltre ai confini storici, nel corso del tempo si è fatta metodo politico e, spesso, visione sul reale.

bonculture ha intervistato Massimo Popolizio.

M. Il figlio del secolo” è un’impresa teatrale: la chiave del successo è sicuramente il montaggio. Com’è riuscito a trovare il suo punto di vista del racconto?

Quando me l’hanno proposto ho pensato: qual è il mio punto di vista? Sicuramente sapevo quello che non doveva essere, quello che non è questo spettacolo: ovvero una puntata di Rai Storia. Non dovevo fare uno spettacolo storico perché uno speciale con Paolo Mieli è più forte di noi. Non potevo essere realista perché dieci video dell’Istituto Luce sarebbero stati sicuramente più potenti di qualsiasi cosa che avremmo pensato per la scena.

Così ha distrutto l’iconografia storica e l’ingombranza dei personaggi.

Non potevo fare qualcosa di metamorfico e non potevo mettere in scena lo stesso Mussolini, Balbo, D’Annunzio o Sarfatti. Il teatro non è una fiction, non deve riprendere uniformi, mimiche e posture note. Noi facciamo altro. Il nostro è un affresco. Il punto di vista è quasi circense: 18 attori si passano il testimone per 87 figurazioni. Ho cercato di creare una staffetta di attori solidi che, nei 31 quadri dello spettacolo, interpretano un bailamme di furore, un circo furioso. In scena creiamo un popolo, un’epica, un mondo attorno alle due figure di Mussolini. Anche la scelta dei due Mussolini, in un gioco del doppio, è un altro punto di vista.

Il suo non è uno spettacolo ideologico, ma popolare – nel senso nobile del termine.

Quella era un’altra mia preoccupazione. Se si porta in scena un romanzo e, in un certo senso, un saggio storico, il rischio di essere pedanti è dietro l’angolo. Uno degli obiettivi era anche quello di divertire, ovvero usare le forme dell’avanspettacolo, del varietà e del circo per dire delle cose molto pericolose. I quadri, veloci, si susseguono in un montaggio che è quasi cinematografico. Sono diretti, dunque proposti a un pubblico che può anche non sapere la genesi del fascismo. A teatro noi proponiamo delle sensazioni emotive: è uno spettacolo che resiste anche se non sai nulla di Mussolini. E io non te lo devo spiegare.

Com’è riuscito a creare più piani scenici?

L’arte di fare dei primi, secondi, terzi piani e campi lunghi è stata la prerogativa principale dell’insegnamento di Luca Ronconi a teatro. Che in pochi sanno fare, perché non è soltanto una motivazione estetica, ma interna, organica, alla base della recitazione. Tutti gli attori che parlano in terza persona non danno informazioni, ma le interpretano. È una cosa completamente diversa rispetto a quello che succede nel teatro di narrazione dove un singolo attore ci inonda di informazioni, dati, fatti. Noi non narriamo, interpretiamo. Così ho la possibilità dinamica di mettere un attore in primo, in secondo o in terzo piano con un movimento che non è solamente fisico, quasi da carrello cinematografico, ma è una vera esigenza narrativa.

Nello spettacolo tutto resta nel perimetro dell’atto retorico teatrale: gli echi dell’attualità sono dentro l’arte, non fuori.

Sì. Anche quando ho fatto “Furore” di Steinbeck, in cui si parlava di immigrazione, non ho mai messo l’evidenziatore sulla contemporaneità, perché quello lo fa la gente che lo guarda. In questo spettacolo non c’è una foto di Salvini. Qualcuno avrebbe potuto mettere una frase di Mussolini e una di Salvini per fare una comparazione, ma io credo che lo sforzo lo debba fare il pubblico. Certe parole, senza bisogno di sottolineature, risuonano molto vicine a noi.

In questi giorni di guerra, poi…

Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, la percezione in sala è cambiata. L’umore è diventato estremamente più pericoloso. Anche il lato comico, come in una sorta di varietà nero, assume un tono tragico e farsesco che ha una sua potenza. Ne farei volentieri a meno, ma la guerra che si combatte sotto i nostri occhi ha enfatizzato la pericolosità e la tragicità delle parole del romanzo di Scurati che noi portiamo in scena.

Le parole che aprono e chiudono lo spettacolo recitano: «Gridano il nome del capo perché nella vita di un uomo il capo è tutto». Che effetto provocano, per chi le interpreta, le parole di Mussolini?

Non sarò retorico, perché credo che questo spettacolo sia l’antiretorica in assoluto. Il teatro è un atto politico quando fondamentalmente è un atto professionale ad alto livello, quando non va incontro a un facile consenso. Io non lavoro per strizzare l’occhio al pubblico, ma per costruire uno spettacolo come questo che mi ha reso molto orgoglioso. Ho messo insieme 18 attori che sono estremamente forti. Il teatro, poi, è un fatto principalmente umano e lo spettacolo è una cosa viva, che respira ogni sera, che si crea, si nutre delle risate, delle emozioni e del consenso o meno del pubblico. È un organismo vivente. La commozione, la forza, l’impegno e la severità fanno parte della mia scuola. Non direi che il teatro è una fede, ma un lavoro: non un lavoro normale, ma è comunque un lavoro. Il testo di Scurati, in questo preciso momento, ha bisogno della nostra severità. Questo è il nostro atto politico. Far rivivere quelle parole per noi è un dovere. Farlo bene, invece, è il nostro lavoro.

Lei è il Mussolini teatrante, mentre Tommaso Ragno è la sua anima politica e privata. Il suo Mussolini è quasi grottesco, ma anche in alcuni piccoli gesti evoca il pericolo, la violenza.

È sicuramente uno spettacolo violento, nonostante il tip tap con la bombetta o l’umorismo nero. Io e Tommaso Ragno ci scambiamo un cappuccio, un cappuccio da boia, che è la voce della coscienza di Mussolini e il simbolo di un mostro a due facce. La violenza c’è, ma non è un agitarsi convulso, perché la violenza in teatro è una cosa difficile da ricrearsi. Quando si vuole fare una scena violenta bisogna costruirla bene, perché la violenza in sé non significa niente. Il rapimento di Matteotti, ad esempio, è una scena molto bella. C’è un primo piano con delle persone in macchina e poi c’è Matteotti che arriva e cammina a rallentatore. Dipanare e chiarire quella scena è necessario per comprendere che lo stanno catturando e portando in macchina con violenza. Ma è una violenza simbolica, non indiscriminata o giovanile che non avrebbe portato a nulla.

Matteotti è l’eroe tragico di questa storia.

Se c’è un carnefice, c’è sempre bisogno di una vittima. Matteotti è al centro della storia di Scurati. Nella prima parte dello spettacolo raccontiamo il contesto, mentre nella seconda la Marcia su Roma e l’omicidio Matteotti sono centrali. Giacomo Matteotti è l’eroe tragico della nostra storia. Con Raffaele Esposito, che è fisicamente diverso da Matteotti, abbiamo pensato un uomo in minore. Porta con sé sempre un peso, una valigia: è affaticato. Nonostante la potenza e l’utopia di voler cambiare il mondo, ha un tono dismesso. Questo lo rende estremamente empatico.

Lei ha detto che il suo Mussolini è mercuriale, mutevole. La trasformazione migliore che ci fa comprendere l’uomo è nel rapporto con le sue donne?

Esattamente. Sarfatti, Dalser, la bambina Ceccato. Ha sensi di colpa per la Dalser, è vittima con la Sarfatti, si sfoga sulla Ceccato non tanto sessualmente ma per la sua voglia di raccontare a lei quanto sia bravo, fantastico. In quei rapporti comprendiamo bene la capacità trasformativa di Mussolini. Questo fa da contrappunto all’amore di Giacomo Matteotti e Velia Titta: un amore utopistico, lontano, non consumato. Fortissimo, ma vissuto fondamentalmente tramite le lettere.

In scena dice che il fascismo non è stato il virus, ma il corpo che l’ha accolto. Il fascismo ha riconosciuto l’umore giusto?

Il fascismo è nato in Italia ed è nato dagli italiani. Questo non si può negare. Il nostro spettacolo è uno spettacolo italiano, non è parodistico, dunque non è italiota. Probabilmente, però, questo Paese ha qualcosa di endemico e nel suo DNA ha delle cellule che, se risvegliate, possono camminare in una certa direzione. Penso che ci potrebbero essere molti fascismi, ma quello storico non potrà più ritornare. Oggi ci deve preoccupare il metodo fascista, non più le vicende consegnate alla storia. Forse, come diciamo all’inizio e alla fine dello spettacolo, l’Italia è portata a credere all’idea di un capo a cui obbedire e di un uomo in cui credere.

Spesso il teatro chiama a sé i fantasmi e tenta di seppellirli. Ci si può riuscire anche con Mussolini?

No, non credo possa bastare questo lavoro. Da anni, ogni anno, da Vespa a Gentile si scrivono libri sul fascismo e su Mussolini. Ciclicamente i conti con Mussolini questo Paese non li ha fatti. Mussolini non credo sia come Hitler per i tedeschi. Per molti italiani il Duce vive ancora in un “sì, però”. Però ha fatto anche cose buone, però le bonifiche, però le strade, però le ferrovie. Per molti c’è un rapporto intermittente con la figura di Mussolini e non c’è mai stata per davvero una condanna unanime del fascismo.

Ha capito come Mussolini riuscì a conquistare l’Italia?

Ha sfruttato il tempo che veniva, così rancoroso e feroce, a proprio favore. Mussolini cambiava continuamente, Mussolini non è mai stato individuabile. Era convinto che il futuro fosse suo. E lo dice: «Io sono come le bestie, sento il tempo che viene».

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