Il varietà nero di Massimo Popolizio porta in scena Mussolini, il figlio del secolo del romanzo di Antonio Scurati

by Felice Sblendorio

«Alla fine si torna all’inizio». Quando tutto comincia, e allo stesso tempo finisce, Massimo Popolizio si addossa la croce del potere e tenta di spiegare il trionfo del fascismo. «Gridano il nome del capo perché nella vita di un uomo il capo è tutto». Il capo, ovviamente, è lui: Mussolini.

M, Il figlio del secolo, tratto dal poderoso romanzo del Premio Strega Antonio Scurati, ha finalmente debuttato a teatro in un monumentale spettacolo diretto dallo stesso Popolizio e prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, dal Teatro di Roma e dall’Istituto Luce. Il progetto dell’anno, ambizioso artisticamente e imponente nei numeri, porta in scena (fino al 26 febbraio al Teatro Strehler di Milano e dal 4 marzo al 3 aprile al Teatro Argentina di Roma) un varietà nero interpretato da 18 attori per ben 31 quadri.

Le oltre ottocento pagine del romanzo di Scurati, che univa alla narrazione anche documenti, lettere e articoli di giornale, sono diventate – lungo le tre ore dello spettacolo – un materiale drammaturgico potente e compatto. La grandezza della regia di Popolizio, affiancato nella drammaturgia da Lorenzo Pavolini, è tutta nel montaggio e in una riduzione teatrale che non è mai ideologica o cronologica. Nonostante sia uno spettacolo popolare che non manca di inquadrare il tempo che racconta, ovvero gli anni dal 1919 al 1925, dalla fondazione dei Fasci di combattimento alla rivendicazione dell’omicidio Matteotti, i quadri sono quasi atemporali, mai manualistici o banalmente descrittivi. Simili a una pennellata, a un affresco o un accento su un tassello della storia, sono degli atti puramente teatrali. Ogni personaggio che si scopre e si amplia (Matteotti, D’Annunzio, Bombacci, Nenni), ogni evento cruciale o particolare che ci fa comprendere come i fatti presero consistenza e potenza in pochi anni, partono e ritornano all’atto retorico del teatro che, nelle mani del regista, cerca una sua espressività, una sua singolare anima, una non banale riproposizione. Non si vedono mai, infatti, i caratteri estetici o le prossemiche stereotipate del Duce: Popolizio distrugge l’iconografia e l’ingombranza storica dei personaggi per restituirci delle figure, delle maschere, sicuramente più complesse e meno granitiche.

La scelta di sdoppiare la figura di Mussolini consente di indagare a fondo un uomo che non è stato solamente, com’è possibile intuire, il personaggio straripante e ridicolo nei gesti e nei toni che la storia ci ha consegnato. Il Duce tratteggiato dalla regia di Popolizio, quasi un fantasma descritto più dall’esposizione con gli altri attori che dai discorsi diretti in scena, è una figura mutevole, come viene sottolineato bene nel rapporto con le sue donne: dalla Sarfatti (interpretata da una magnifica Sandra Toffolatti) a Ida Dalser, Bianca Ceccato e Rachele Mussolini. Con ogni donna si scopre un Benito diverso, lontano dall’unica e consolidata figura machista e virile.

In questo gioco del doppio, il Popolizio attore si fa carico dell’anima grottesca e della maschera teatrante di Mussolini, fra balli, tip tap, bombetta e bastone, sospeso su un trapezio con un frack che ricorda più Modugno che il Duce; mentre è affidata alla superba prova attoriale di Tommaso Ragno l’interpretazione del tratto personale e politico di Mussolini, dell’uomo comune infestato dai dubbi e dalle incertezze, delle fragilità di quel figlio del fabbro di Predappio che, fra situazionismo ed estrosità, riuscì a sentire e a intuire prima degli altri il tempo che veniva.

L’irrequietezza drammaturgica, che rende lo spettacolo vivace ed estremamente dinamico, con un montaggio quasi cinematografico, è la forza di questo esperimento teatrale “laico”. Nello spazio scenico, dominato dall’impianto mobile realizzato da Marco Rossi e utilizzato dagli attori nella sua totalità, non c’è un credo, una tesi da seguire o un personaggio da demonizzare, ma solamente una messa in azione del corso della storia – con parole ricavate, perché il testo è quasi tutto in terza persona – che si dipana naturalmente, senza forzature ideologiche o espressive. Agli attori, misurati e accordati fra di loro come un’orchestra ben conciliata, bastano quelle parole. Che urtano ancora, se interpretate e processate bene. La chiave grottesca scelta da Popolizio, un chiaro omaggio a Brecht, non intacca la drammatica validità del senso di quanto interpretato. Prova di questa fedeltà è l’interpretazione vibrante di Raffaele Esposito nei panni di un tormentato Giacomo Matteotti.

Gli uomini, scriveva Marx, fanno la storia non in modo arbitrario, ma in circostanze che trovano davanti a sé. Questo ha fatto il fascismo in un crescendo continuo di violenza e conquista del potere: ha riconosciuto le circostanze e intercettato l’umore giusto. O, prendendo in prestito le parole dallo spettacolo che racconta bene l’epifania del regime, ha riconosciuto il virus, la malattia del Paese, e l’ha accolta in un corpo già infetto.

Alcune parole di quel terribile Ventennio sono ponti immediati con l’attualità politica. Oggi, infatti, non colpisce più il fascismo storico, la violenza meschina delle squadracce, la marcia su Roma, ma il metodo che sottese quel regime. Non sarà difficile, allora, riconoscere alcune tracce del presente quando si afferma in scena che il fascismo è stato incubato in tempo di pace e che i fascisti erano anti qualcuno o qualcosa: erano l’antipartito dell’antipolitica. Anti-dottrinali poi, pratici e moderni. Non più ideologici, ma sintetici, allegri, veloci. I valori considerati una zavorra, la distinzione fra destra e sinistra un peso del passato. Doveva esistere solo il caos del presente e neppure una luce sul futuro: non avere un’idea dell’avvenire era una salvezza, non una condanna.

Tutte idee del figlio del Secolo, oramai teorizzate cento anni fa. Fu il primo, ancora una volta, a maledire concetti che influenzano tuttora il tempo che viviamo e a pronunciare parole di catastrofe che, in modalità differenti, serpeggiano ancora oggi.

«Il futuro ci appartiene. È inutile, non c’è niente da fare, io sono come le bestie: sento il tempo che viene».

foto di Masiar Pasquali

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