Luce D’Eramo, l’aliena viaggiatrice del tempo, per cui scrivere era un atto di conoscenza

by Michela Conoscitore

Si definì aliena, a se stessa e al tempo in cui viveva. Aliena lo è anche della nostra letteratura, tra le scrittrici meno conosciute per quanto sia stata una delle maggiori protagoniste del Novecento, al centro di dialoghi, discussioni, scambi e narrazioni che hanno contribuito a rinnovare la voce dell’autorialità italiana. Ha spinto pervicacemente alla riflessione sul mondo in cui hanno abitato lei e i suoi contemporanei, uno degli aspetti che ha sempre caratterizzato la sua opera letteraria.

Luce D’Eramo per cui scrivere era un atto di conoscenza portato avanti con fantasia, più che un’aliena è stata una viaggiatrice del tempo, possedeva la capacità rara di andare oltre le cortine fumose delle apparenze e sondava incessantemente mode e persone, ne diventava padrona e poi proseguiva, verso altre mete, come una cosmonauta alla ricerca dell’infinito.

Nata come Lucette Mangione il 17 giugno del 1925 a Reims, in Francia, la scrittrice era figlia di genitori italiani, Publio e Maria Concetta: pittore, pilota durante la Prima Guerra Mondiale, ed ingegnere, in Francia il padre della scrittrice si occupava di costruzioni. Con la moglie, segretaria del Fascio, entrambe i coniugi si occupavano di aiutare gli italiani presso la Casa degli Italiani.

La famiglia Mangione visse a Parigi per quattordici anni, poi nel 1938 rientrarono in Italia stabilendosi ad Alatri. Lucette diventò Luce, e per la ragazzina il ritorno in Italia, nello specifico passare da un’ambiente cosmopolita come quello parigino a quello provinciale e soffocante di Alatri, fu uno choc. Se in Francia era la petite macaroni, ad Alatri dai compagni di scuola fu ribattezzata la francesina. Forse, fu proprio questo periodo a far nascere in lei quel senso di straniamento e mancanza di radici che la resero, in seguito, un’acuta osservatrice e vicina ai diversi.

Poco dopo con lo scoppio del secondo conflitto bellico, il padre fu richiamato alle armi, Luce si iscrisse all’università e ai GUF, rinfocolando il proprio credo fascista. Almeno fino al 1943, con la caduta del regime i Mangione lasciarono Roma per trasferirsi a Bassano del Grappa dato che Publio venne nominato sottosegretario all’aviazione della Repubblica di Salò. Cominciarono a circolare determinate voci sui campi di lavoro degli alleati tedeschi, Luce diciannovenne inquieta decise di sondare di persona e partì per la Germania.

Una volta lì, il suo credo politico iniziò a vacillare, fino a crollare del tutto quando testò di persona la Germania del male. Tentò il suicidio, fu tacciata come comunista e soltanto per riguardo al padre, fu salvata e rimpatriata a Verona. Eppure, Luce non volle avere alcuno sconto di pena o trattamento speciale, salì di sua spontanea volontà su un camion stracolmo diretto al campo di Dachau.

“Mi hanno detto a Dachau: Bacia per terra che non t’hanno sbattuta in un loro bordello. Diciannove anni, e femmina, che vai a sperare…la libertà nel Terzo Reich?’”

L’esperienza nel lager sarà metabolizzata con fatica da Luce nel corso degli anni successivi e raccontata nella sua autobiografia, in cui scrisse: “Nei lager sopravvivono quelli che conservano la direzione morale della propria vita, non c’è via di mezzo. E questo è il bello: qui non puoi barare”.

Il 27 febbraio del 1945, Luce era a Magonza, era riuscita a fuggire da Dachau e si trovava in quella città tedesca per aiutare la popolazione sfollata. Una mattina, una bomba al fosforo a scoppio ritardato deflagrò tra le macerie degli edifici bombardati, Luce fu travolta dal crollo di un muro che le spezzò la colonna vertebrale condannandola alla paralisi a vita.

“È vero, ne ho solo diciannove ma me ne dimentico sempre. Poi quando me ne ricordo è come se facessi una scoperta, e un po’ sono felice perché ho tanta vita davanti a me. Subito però sono triste, mi prende un terrore dell’avvenire, mi pare che non potrò più vivere dopo tutto questo.”

Tornata in Italia trascorse alcuni mesi in ospedale a Bologna, qui conobbe il futuro marito, Pacifico D’Eramo, da cui ebbe il figlio Marco. In questi anni, oltre a laurearsi prima in Lettere con una tesi sulla poetica di Giacomo Leopardi e in seguito in filosofia, disquisendo di Kant, avviò il suo personale percorso di scansione del vissuto bellico e dell’incidente che modificò per sempre la sua vita, una deviazione da quel che lei probabilmente aveva pensato per sé. La paralisi la costrinse a riconsiderare categorizzazioni e sovrastrutture, a renderla ancora più aliena, più lontana da quelli che non sanno, i superficiali, gli ignoranti della vita vissuta intensamente e con tormento.

L’esperienza della guerra confluì in una raccolta di racconti chiamata proprio Deviazione, alcuni di essi pubblicati precedentemente su riviste, come Thomasbräu su Nuovi Argomenti diretta da Alberto Moravia. Non era la sua prima opera letteraria, dopo gli esperimenti giovanili, Luce D’Eramo aveva già pubblicato Idilli in coro nel 1951. Questi furono anni fruttuosi, nei quali la scrittrice si divise fra il suo incessante scandaglio emotivo e i contatti con altri importanti esponenti della letteratura che proprio dopo la pubblicazione di Idilli, iniziarono ad apprezzarla. Oltre a Moravia, anche Elsa Morante, Dario Bellezza e Ignazio Silone con cui instaurò una grande amicizia lunga una vita intera. Di Silone, altro scrittore alieno e poco riconosciuto, D’Eramo scrisse una sua pregiata biografia, cosa che avverrà anche con Cesare Zavattini.

Dopo, in verità, ero talmente satura del mio vissuto e dei commenti della gente sulla guerra mondiale, che mi ritirai nel privato, studiando e scrivendo per conto mio. Quando infine ho pubblicato la storia della mia esistenza nel ’79 (avevo impiegato più di trent’anni a venirne a capo), quando finalmente m’è parso d’aver capito e ricostruito il corso del mio vivere fino al ’77, data in cui ne ho concluso il racconto ho potuto concentrarmi in quello che era stato il mio sogno: di capire al presente.

Una volta sganciatasi dai pesanti trascorsi della guerra, la scrittrice si focalizzò sul presente: sono gli anni di piombo, prima il sindacalista Pinelli, il commissario Calabresi, la morte inspiegabile dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, Luce si addentrò fino alla radice di quel periodo storico, indagando anche come la stampa dell’epoca traduceva quegli avvenimenti e quanto modificava o, addirittura, taceva. Scrisse Nucleo Zero, un viaggio nella mente dei terroristi nel quale si annullò nei personaggi per provare a comprenderli e raccontare le storie di alcuni di loro. Intanto collaborava alacremente anche con quotidiani come Il Manifesto e L’Unità.

La fascinazione che l’Altro o il diverso ha sempre esercitato su di lei, si trasformò in un nuovo romanzo, Partiranno, che nella letteratura italiana inaugurò il genere fantascientifico: da vera antesignana, narrò di un gruppo di alieni clandestini provenienti dal pianeta Nnoberavezi e dei loro contatti con l’umanità. Si accese anche un dialogo tra lei, Moravia, Bellezza e Alain Elkann nel quale i tre scrittori affermarono che quello fantascientifico non poteva nemmeno essere considerato un genere narrativo, tesi a cui si oppose fermamente Luce D’Eramo che aveva salutato l’allunaggio del 1969 come un’opportunità per stemperare la finitudine umana.

Se guardavo qualcuno, e pensavo che sarebbe morto, facevo fatica a usare la ragione. Di fronte alla sproporzione tra la cecità degli uomini e il loro annientamento, mi meravigliavo che continuassero a accanirsi, a arrabattarsi, a convincersi di qualcosa. Li ammiravo per questo. Come confondergli la verità finale (quella che mi portavo in corpo)? Non restava che distrarli, rallegrarli, dar loro fiducia, restituirgli un esile criterio di continuità: almeno non strisciare, quel poco che si esiste non regalarlo alla paura, all’ansia, alle minute viltà che sbriciolano il niente che siamo.

Proprio la finitudine dell’essere umano è al centro della sua instancabile inchiesta che si è colorata di filosofia, e associata ad un continuo approfondimento religioso e scientifico. I problemi di salute che con l’andare del tempo si intensificarono esponenzialmente non le impedirono di scrivere romanzi come Ultima luna, Si prega di non disturbare, Una strana fortuna e Un’estate difficile, esempi oltre che dell’inesauribile vena letteraria anche dell’appassionato volgere al presente un’attenzione particolare. Luce D’Eramo ha saputo spiegare la realtà, a gettare luce su momenti storici oscuri utilizzando una narrazione scabra e diretta, che denotava l’urgenza di un messaggio necessario per poi saper abbracciare il futuro, quello dello spazio inconoscibile. Impegnata in un progetto di scrittura dedicato ad Etty Hillesum, la morte colse l’Aliena nel 2001, a Roma.

Secondo me non ci sono modelli di comportamento. Chi ha lottato per la libertà, per la giustizia, non ci dice come possiamo lottare noi. Ci dice che è possibile farlo. Che è sempre possibile ritentare da capo. Così ho fatto io. Ho cercato di raccontare per che vie e attraverso quali errori ho cercato di diventare più umana.

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