Io non l’ho interrotta: immagini e parole dalla comunicazione politica contemporanea

by Chiara Idrusa Scrimieri

Si è conclusa il 30 giugno nel Castello Volante di Corigliano d’Otranto Io non l’ho interrotta, rassegna di giornalismo e comunicazione politica curata da Pierpaolo Lala, articolando per quattro giorni una profonda e corale riflessione sul contemporaneo. Io non l’ho interrotta non è un format per giornalisti e addetti ai lavori: è un’occasione di grande nutrimento personale, perfino per chi non è troppo affascinato dall’attualità e dal logorìo verbale che la accompagna, con e senza interruzioni.

La composizione dei panels percorre a ritmo di ironia le parole e la timeline della storia politica nazionale e internazionale, dalle praterie brade dei social ai media più stagionati del palinsesto. L’oggetto del discorso è la lingua della comunicazione politica, dalla parola della propaganda all’analisi giornalistica e, più ci si addentra nell’interrogazione sulle parole e sul racconto della contemporaneità, più le evidenze della lettura politica passano da rappresentazioni visive della storia, immagini nitide. Io non l’ho interrotta diventa il pretesto per prendere appunti su una sorta di antropologia visiva della comunicazione politica contemporanea, andando alla ricerca delle premesse di una coscienza storica ancora in comune.

Che immagine ha a disposizione lo storico, oggi? Chiede Riccardo Noury (Amnesty International).

La rassegnaparte col turbo di un prologo esilarante. Giorgio Frassineti (già sindaco di Predappio) ci para davanti il paradosso narrativo della morte di Mussolini e delle difficoltà culturali di un sindaco comunista condannato a occuparsi a vita dei natali del Duce. La morte di Mussolini, avvenuta per fucilazione in situazione fisica e geografica del tutto secondaria, diventa pubblica per scelta politica: nell’esibizione del cadavere c’è, oltre alla celebrazione di una vendetta, l’intenzione di consegnare quell’immagine al futuro. È così che nasce la comunicazione politica, ci dice Massimo Bernardini (Tv Talk): l’immagine imposta alla memoria genera l’atto del ricordo.

Immagine vivente dell’ingiustizia sono i sopravvissuti all’Olocausto, che ci consentono ancora per poco la pratica di una memoria attiva con cui portare il ricordo nelle scuole: lavorare sul valore del racconto alle nuove generazioni e con l’esperienza di viaggio nei luoghi della deportazione è la scelta politica di chi combatte i fascismi e non può accettare di sbrigarsela con una targa per strada, sottolinea Paolo Paticchio (Treno della Memoria). La domanda vigile dello storico che è in ognuno di noi è se, venuti meno i protagonisti della storia, perseguiremo ancora la strada nutriente del ricordo. Che senso ha, allora, per tutti la parola museo, con quell’idea un po’ mummificata tra curatele obsolete e souvenir?

Tutti paiono favorevoli a un’ipotesi di museo moderno, che riproduca, anche con l’ausilio delle nuove tecnologie, il valore esperienziale del vissuto umano: a Predappio, cui all’imbarazzo originario dei natali del Duce si aggiunge nel frattempo quello della sepoltura, un museo ha tanto più senso come riproduzione claustrofobica di un girone infernale: tu non devi veder l’ora di uscire di lì, vedi mo’ se dopo l’inferno ti va di comprare l’accendino con la testa di Mussolini (Frassineti).

Quando l’orologio scocca la fine del primo incontro tra noi aleggiano ancora allusioni sinistre, la storia appuntata a immagini laceranti: le deportazioni naziste di ieri dal Binario 21 di Milano centrale, la Sea Watch in mezzo al mare di oggi, il padre e la bambina riversi nel Rio Grande di domani. Ciascuna epoca con le sue navi in fiamme alle porte di Orione, il Nulla che sta avanzando.

Con quali parole siamo in grado di generare immagini per l’eternità?

Che cosa siamo oggi, che postiamo cose e tagghiamo gente, agli occhi della storia? Metti insieme una sociolinguista come Vera Gheno, un comunicatore politico come Dino Amenduni (Proforma) e un giornalista e filosofo come Bruno Mastroianni e ti diranno che oggi non siamo altro che l’immagine di noi stessi. La parola accompagna, più lenta, l’instantanea della nostra quotidianità: il politico oggi fa colazione su Instagram. Siamo forse oggi in grado di produrre immagini per la storia, tra una colazione quotidiana e un petto nudo in vacanza? Come narreremmo oggi Aldo Moro, che scendeva in spiaggia col fascio di giornali sotto il braccio in giacca e pantalone, o al massimo in accappatoio, per passeggiare coi figli sul lungomare di Terracina?

Ci sono momenti della storia in cui le certezze vacillano e noi siamo ben dentro uno di questi. Le parole della storia diventano carta da parati per il populismo (chi sa veramente oggi cosa vuol dire populista?).

L’incursione pop, radice delle parole Popolo, popolare, populista, con Gabriele De Giorgi (LeccePrima) che dialoga con Francesco Costa (Il Post), Giovanna Pancheri (Skytg24), Leonardo Bianchi (Vice.com), Riccardo Saporiti (Datajournalist), ci avvisa di quante parole siano divenute impraticabili e insidiose, oggi che la lingua scritta è così desacralizzata da non occorrere più il lasciapassare morale di un’istruzione degna di nota. Verrebbe da concludere che il guaio delle parole di oggi, rispetto alla transitorietà delle immagini (e magari la vita fosse tutta così biodegradabile come nelle storie di instagram e di tutto il campionario di post di 24 ore di vita), è che restano. Non più perché scripta manent, ma perché grazie ai media entrano nei vasi sanguigni e fanno le placche al linguaggio comune, degradandolo. Le parole sono un pericolo, perché alterano la percezione delle cose (Pancheri). Non solo perché narrano, ma perché meta-narrano: aggiungono discorsi ai discorsi, dati ai dati, generando continuamente metadati. Siamo immersi in un flusso metalinguistico che genera contenuti dai contenuti, twitter su twitter, chiacchiericcio abbondante, del tutto o quasi disconnesso dalla realtà.

Il talk è vivo?

Chiede Pierpaolo Lala ed è la domanda di ogni anno, a verificare lo stato di salute della logorrea mediatica. Sì e lotta imperterrito insieme a noi. Più che altro: le parole lottano tra loro nell’arena, essendo l’anima del talk. Il salotto tv si è consacrato show della parola, libera, senza che si ponga questioni etiche di allineamento a una qualche materia esistente: è pura drammaturgia, ci dice Bernardini che di (Tv) Talk se ne intende. Anche perché la tv di contenuti non si fa più.

Dall’analisi di Carlo Freccero viene una delle più inquietanti immagini della storia recente italiana, data fin troppo per scontata: il palinsesto televisivo nasce come un grande orologio a cui sincronizzarci. Da fata (la tv pedagogica che ci unisce combattendo l’ignoranza) a strega (la tv commerciale, di recente anche interattiva, che sancisce la nostra identità di consumatori dapprima del tutto passivi e poi illusi e chiassosi influencers), la storia della tv ci narra che la verità non è più un valore filosofico ma è appiattita in una numerica questione di marketing: solo ciò che risponde a grandi numeri conta, il resto non esiste. Nel tempo di questa trasformazione radicano le premesse al populismo televisivo: la politica a un certo punto diventa show, una danza del leaderismo e dello spettacolo, con grande mortificazione per l’immaginario (Freccero). Eliminando dallo show quotidiano tutto ciò che non è infotainment (informazione di intrattenimento), compresa la politica estera, in Italia non resta che guardarsi miseramente addosso, parlando un linguaggio piano, semplificando sempre di più il discorso, ci ribadisce implacabile Freccero: la politica diventa un discorso vuoto.

E chissà se, mentre noi stiamo qui ad analizzare il chiacchiericcio televisivo, magari sulle cose italiane riesce a sbarcare qualcuno, dice a un certo punto qualcuno del talk sul talk, giacché ad ogni parola del qui ed ora corrisponde sempre un controcampo.

E allora? Esiste una verità nelle parole?

Ancora: esiste un’immagine della “verità”? Partendo dal presupposto che oggi è tutto un televedere attraverso lo smartphone (Alessandro Garofalo, esperto di innovazione), dobbiamo prendere atto di come sia scomparso dal linguaggio come dall’immaginario comune qualsiasi riferimento alla verità. La verità esiste ma non è quella che raccontiamo ci lancia come allarme noto, ma non per questo meno inquietante, Piero Gaffuri (Transformation Office- Rai). Ecco dunque che, forse, occorre ripartire dal nostro rapporto con la realtà. Quale realtà in un orizzonte di informazioni emotive che cavalcano l’evento, di relazioni umane iniziate, vissute o finite via chat, di fake news e invenzione di notizie, icone, personaggi, fidanzati inesistenti da dare in pasto a chiunque e senza criterio nel vasto mare dei media? Abbiamo oggi strumenti di navigazione nel qui e ora che neanche spesso ci riguarda e ci crede collocati al centro delle cose, nella presunzione di poter mettere in crisi le immagini del passato e con esse le verità storiche, praticando uno scetticismo del tutto vale tutto che sta ampiamente sgretolando il senso della necessità di una democrazia?

Ci si chiede quale ruolo spetti, in questo panorama, all’innovazione. Cercate i paradossi della realtà e sarete innovativi, dice Garofalo. Da un lato occorre rompere il paradigma del pensiero corrente per farsi creatori del pensiero originale; dall’altro serve avere consapevolezza che l’intuizione scaturisce dal disagio e dall’urgenza di trovarne soluzione.  L’innovatore, che è una persona estremamente concreta, avvisa che non c’è cambiamento delle proprie disperate condizioni che non passi dal rinsaldarsi del link con l’umano (le relazioni sapienti, le abilità, i vecchi mestieri e saperi, il valore del nostro patrimonio: il complesso perduto di noi stessi). Dunque, per tornare alla grande verità del racconto e della parola, è più probabile che chi sta sui territori racconti la verità, perché in presenza di forti radici lo spazio per le notizie false, la meta-realtà e la mistificazione si riduce drasticamente. Anche nelle visioni dell’innovazione la storia pare fatta di “figure”: verità e identità si ricongiungono alla fine di un lungo viaggio, recuperare l’umano è l’unica speranza di ricostruire noi stessi.

È un’immagine frequente della contemporaneità, quella legata alla parola ricostruzione. Tre sono le immagini inequivocabili della mafia, nelle parole di Salvatore Borsellino. Tre le icone che cercano di ricordarci che la storia ha lacerato la storia, generando un eterno bisogno di ricostruzione. La prima è quella di Paolo Borsellino che porta in spalla la bara del fratello Falcone. La seconda è l’agenda verde degli appuntamenti dove nella trattativa Stato-Mafia fu segnato lo strappo dell’isolamento istituzionale. La terza è una non-immagine, l’agenda rossa del magistrato sparita per sempre.

Ci salveremo?

Negli Appunti per una riscossa civica, Ferruccio De Bortoli (Corriere della Sera/Longanesi) passa in rassegna la catastrofe del nostro debito pubblico, terzo nel mondo. Viene da chiedere quale possa essere l’immagine della salvezza, qui da Sud, dove al nostro impoverimento progressivo corrisponde la litanìa del basso impiego di fondi pubblici destinati a coesione e sviluppo. La salvezza è nella politica? Sì, se significa ossigenare un paese che sta collassando, investendo in cultura e competenze digitali, aprendo a investimenti esteri con regole certe e amministratori seri, tassando di meno il lavoro, individuando nuove fonti di reddito e investimento lavorativo. Le soluzioni non mancherebbero. Forse, però, abbiamo una carie alla forza di volontà, carburante fievole all’illuminazione. De Bortoli attinge al passato, meravigliosamente, come riserva nazionale di virtù civiche e di immagini di salvezza, perché abbiamo una storia di civiltà contadina che non lasciava indietro nessuno. Il paese si salva solo se recupera il senso migliore delle sue tradizioni: insegnando l’educazione civica nelle scuole e coltivando quel senso civico che è alla base delle comunità coese, poiché la memoria praticata di se stessi e dei propri valori produce il vaccino che costruisce il futuro e insieme il sentimento di appartenenza a una stessa comunità.

Il recupero del valore umano che è nella storia e nelle identità locali ritorna. È solo con la cultura e con la crescita della qualità della cittadinanza (e nella sottoscrizione di un patto di cittadinanza, sottolinea Carlo Salvemini, riconfermato sindaco di Lecce) che possiamo riscattarci, ricostruendo quell’alfabeto del senso civico, perduto e necessario a considerare lo spazio comune come estensione del proprio spazio vitale, luogo di incontro e di espressione del nostro farci società civile. Una bellissima immagine ci viene regalata dalla sua città (Lecce) e dalla sua ultima esperienza amministrativa: quella dei cittadini scettici di piazzale Cuneo, che prima ascoltano i suoi comizi di quartiere dai balconi di una periferia estrema e trascurata e poi decidono di prendersi cura delle aiuole trasandate, facendone un meraviglioso giardino di orti comuni.

Ci salveremmo, sì.

Se riuscissimo a dar voce all’umanità in rivolta: quella che lotta per il lavoro e il diritto alla felicità, ci dice Aboukabar Soumahoro (sindacalista italo-ivoriano impegnato nella lotta per i diritti dei braccianti) e lo fa con una proprietà di linguaggio e una qualità visionaria della parola che non bastano tre quarti di attuale governo italiano a metterlo insieme. Aboukabar deve essere uno dei Re Magi e Marco Da Milano lo accompagna nella città dolente che siamo diventati: io, qui, ora, schiavi del presentismo, la popolazione ridotta a merce del consenso senza anima, quello che mai cambierà la realtà. In uno scenario disarticolato, senza visione né idea di società, Aboukabar ci porta in dono le immagini del passato e del futuro: le persone sono fatte per circolare, la società si deve basare sulla giustizia sociale e su una leadership collettiva.

L’ultimo ritratto della storia offerto da Io non l’ho interrotta è uno scatto in movimento. La Sea Watch, matrioska di immagini di un doloroso presente, accoglie quella feconda di Caroladonna in rivolta, che dona un doveroso attracco al movimento in fuga di chi cerca la possibilità di vivere condizioni umane. Viviamo il paradosso di in un’epoca in cui il movimento come diritto genera un’immagine rarefatta, tanto siamo abituati ad abdicare all’etica: non capiamo come l’immagine di salvare vite umane possa riallacciarci all’umano, rivendicando come diritto universale la felicità. Una parola e un’immagine, la felicità, che deve ad ogni costo tornare ad essere politica.

Io non l’ho interrotta è organizzata da MultiServiceEco in sinergia con CoreACore, Bigsur, Coolclub, Conversazioni sul Futuro, Associazione Diffondiamo Idee di Valore, ArgentoVivo – Collettivo Fotografico, Castello Volante di Corigliano d’Otranto, Associazione Narrazioni, Associazione Culturale Vittorio Bachelet, Officine Culturali Ergot, Holm! Editoria e disegno e Salento Book Festival, co-finanziata dal programma straordinario 2018 in materia di cultura e spettacolo della Regione Puglia (Assessorato industria turistica e culturale – Dipartimento turismo, economia della cultura e valorizzazione del territorio), con il supporto del Comune di Corigliano d’Otranto grazie al contributo del Comitato Regionale per le Comunicazioni (Co.Re.Com.), con il patrocinio dell’Ordine dei giornalisti della Puglia e con la collaborazione di Corte dei Francesi, Caroli Hotels, Vestas Hotels & Resorts, Amphitrite B&B, Palazzo Rollo, Fanfulla Rooms, Salento Rent, Masseria Costa, Taranta suite e Birrificio B94. Media Partner RadioWau. Io non l’ho interrotta sostiene il progetto Posto Occupato. Info iononlhointerrotta.com – 3394313397.

*Foto Giancarlo Greco

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