“La difficoltà è rincuorare i pazienti, restituire loro fiducia”. Il rianimatore Livio Tullo alla quinta settimana di Covid-19

by Antonella Soccio

A distanza di quindici giorni siamo tornati al reparto Rianimazione e Anestesia degli Ospedali Riuniti di Foggia per incontrare il responsabile Livio Tullo. Tre le rianimazioni Covid-19 e la quarta è in queste ore in via di ultimazione. Impegnati in prima linea nell’emergenza pandemica, i rianimatori sono abituati a lavorare, in limine vitae, nella zona grigia, sono avvezzi ad un approccio mentale metodico. Il loro lavoro si compone di una sequenza di azioni da compiere con ordine, anticipando mentalmente tutti i passaggi. Gesti psicologicamente e fisicamente impegnativi che “spezzano i muscoli” e sono resi ancora più faticosi dai dispositivi di protezione.

Abbiamo intervistato il dottor Tullo.

Dottore, a che punto siete nel reparto di Foggia?

Le Rianimazioni ai Riuniti di Foggia sono una rianimazione Covid- free, perché purtroppo non si muore solo di Covid, e sono attive 3, perfettamente funzionanti, Rianimazioni Covid ed è in via di ultimazione la quarta Rianimazione Covid-19, che è la quinta Rianimazione del Policlinico.

Sono 9 posti letto nella 1, 6 nella 2, 6 nella 3 e dovrebbero essere da 8 a 10 nella 4, questo è il dato presuntivo. Non so se dal punto di vista tecnico riusciremo ad averli tutti e 10 ma la progettualità consta di 10 posti letto.

Cosa ha scoperto dall’inizio dell’emergenza riguardo alla malattia e come evolve il numero di pazienti che arriva da voi? C’è un aumento esponenziale?

Stiamo osservando che la patologia è multiforme, cioè non può essere ricondotta ad un unico profilo clinico. Anzi abbiamo visto che il modo di comportarsi dei polmoni dei pazienti può essere differente.

In che senso?

È un discorso molto medico, la tipologia di intervento che noi effettuiamo può essere anche molto diversa da paziente a paziente. Gli studi che ci erano derivati dall’esperienza cinese sembrava si riconducessero ad un solo tipo di profilo clinico, in realtà noi abbiamo visto che ce n’è più di uno. Chiaramente questo lo abbiamo compreso grazie ai monitoraggi che poniamo in essere, che sono estremamente sofisticati e differenziati e che ci hanno consentito di verificare i diversi tipi di risposta dei pazienti all’aggressione del virus.

I pazienti che prendono particolari farmaci sono più esposti, non è vero? La malattia ha un’evoluzione più aggressiva?

Sicuramente ha una evoluzione più aggressiva, ma soprattutto è il tipo di risposta ai supporti di ventilazione meccanica, ai farmaci di sostegno cardiovascolare, che cambia. Abbiamo notato che la risposta dei pazienti è diversa, quindi i supporti vanno regolati in maniera differente a seconda del diverso profilo clinico.

Quanto conta l’età?

L’età conta sicuramente, questo è un dato di fatto, per cui è ovvio che i pazienti più fragili sono pazienti che rispondono sicuramente peggio alla infezione, però io vorrei poter dare delle notizie confortanti, ma purtroppo non posso farlo, perché ci sono stati casi di ragazzi giovani e senza comorbilità che hanno avuto delle evoluzioni importanti.

Anche negli Ospedali Riuniti?

Anche negli Ospedali di Foggia.

Dalla sua osservazione cosa ha compreso del virus? Come mai in alcuni polmoni si riproduce con più forza?

Il virus è in grado di evocare risposte infiammatorie anche particolarmente violente e quindi in tal senso anche in pazienti giovani l’infiammazione può essere talmente esuberante che determina una evoluzione infausta. Sicuramente il fisico dei giovani risponde meglio rispetto a quello dei pazienti anziani con diverse comorbilità, ma anche nel paziente giovane si può avere una reattività talmente esuberante e disorganizzata che ne causa la prognosi infausta. Va detto che questa risposta può arrivare anche da altri microrganismi, ci sono altri microorganismi altri virus e altri batteri che possono dare delle infezioni che si sviluppano in maniera estremamente violenta anche in pazienti che non hanno comorbilità. Questo fenomeno non è che non si conoscesse, fa già parte delle nostre conoscenze, non ci sorprende più di tanto che anche un paziente giovane possa avere una risposta infiammatoria talmente sproporzionata da determinare addirittura la morte dell’organismo che risponde al virus.

Siccome anche per le normali polmoniti, i pazienti anziani assai spesso muoiono per altre cause, come il coma uremico, cosa ci può dire del Coronavirus? Accelera questi processi?

Sicuramente quello che noi abbiamo visto è che il Coronavirus determina una riduzione e una compromissione gravissima della funzione polmonare.

È quella primaria, quindi?

Sì, le conseguenze degli altri organi sono legate alla carenza di ossigeno nel sangue dovuta alla compromissione polmonare. Però i virus- e il Covid non fa differenza- sono in grado di attaccare anche direttamente altri organi- è uscito negli ultimi giorni un articolo in una rivista scientifica in cui ci sono delle miocarditi virali da coronavirus- anche il cuore, la funzione cardiaca può essere direttamente compromessa dall’infiammazione provocata dal virus.

È già successo nei pazienti in esame nei vostri reparti?

Sì, almeno in un paziente sì. Certo diventa anche abbastanza difficile distinguere quanto la compromissione cardiaca o renale sia dovuta alla compromissione polmonare. La compromissione polmonare determina una riduzione di ossigeno nel sangue e quindi chiaramente tutti gli organi ne soffrono- cuore, reni, cervello- ci sono degli stati di agitazione, di coma dovuti al fatto che arriva poco ossigeno al cervello. La prima compromissione che abbiamo visto è quella polmonare, è quella più diffusa ed evidente, la più immediatamente evidente, però è chiaro che noi conosciamo le patologie da virus. I virus possono dare anche miocardite o un problema renale da danno diretto e non soltanto dovuta da carenza di ossigeno. I due fenomeni, come sempre accade in medicina, inestricabilmente sovrapporsi.

Abbiamo sentito il dottor Spaccavento, anestesista e rianimatore di Bari, e lui ha affermato che tanti pazienti arrivano in ospedale in condizioni già troppo critiche, lei cosa ha osservato ai Riuniti, è così? Potevano essere curati meglio prima, a casa? La domanda è anche legata alle lagnanze di tanti sindaci che non conoscono i dati e lo stato di salute dei quarantenati.

Sì, sono perfettamente d’accordo ed è anche nostra esperienza diretta a Foggia di aver visto pazienti che si sono rivolti a noi troppo tardi.

Di chi è la responsabilità allora? Sono i medici di famiglia che dovrebbero intervenire di più?

Non c’è una responsabilità diretta. È questa una domanda che ha a che fare con le strategie di contrasto ad una malattia, che ha sorpreso tutti quanti. Anzi noi qui al Sud siamo stati facilitati dall’esperienza del Nord e probabilmente i risultati si vedono, io non so se avverrà, però sicuramente non si è avuta ancora quella esplosione dell’epidemia, così come si è verificata al Nord Italia. La struttura finora ha retto, però è chiaro che un paziente che rimane a casa con tosse non sa cosa fare. Sa che cosa inganna? Questa malattia ha una caratteristica che inganna anche gli stessi pazienti: nelle prime fasi- e quando dico prime fasi mi riferisco anche alla prima settimana, ai 10 giorni- non crea un eccessivo disconfort da parte del paziente. Il paziente non sente di stare male, ha febbre e tosse, ma non si percepisce così grave così come è invece se si vanno a vedere le analisi del sangue.

Il virus si annida piano piano?

Le analisi del sangue ci danno la dimostrazione della compromissione polmonare molto più grave di quella che il paziente sente. Questo può condurre il paziente all’attenzione dei sanitari più tardi.

Un medico dovrebbe auscultarli prima o fare loro subito le analisi del sangue?

È difficile, a casa è difficile poter disporre degli esami del sangue che abbiamo noi in ospedale. Per un lungo periodo, per i primi 10 giorni, i pazienti hanno una grave compromissione polmonare, ma tu con loro ci parli e loro ci riferiscono di non sentire tutto questo fastidio, ma noi li teniamo monitorizzati, proprio perché possono precipitare da un momento all’altro. Per fortuna non sempre succede.

Il suo è un reparto di eccellenza ma si è anche detto in questi giorni e lo ha affermato più volte il professor Lopalco che in Italia c’è una scarsa attenzione all’igiene negli ospedali. La classe medica italiana è quella che consuma meno gel disinfettante in Europa. Lei che ne pensa? Qual è oggi la difficoltà ad aderire a protocolli di protezione che in Italia non sono così usati?

Ci sono differenze tra era pre Covid e post Covid. Se ci riferiamo all’era pre Covid e all’approvvigionamento di DPI, è sotto gli occhi di tutti quanto sia stato difficile. A tutt’oggi nelle nostre rianimazioni, nonostante problemi di approvvigionamento, a mia memoria, non ci sono mai stati problemi di distribuzione di dispositivi a tutto il personale. Naturalmente, non ho la sfera di cristallo, non so se domani mattina continueremo ad averli, a tutt’oggi non c’è mai stata carenza per nessuno dei soggetti direttamente interessati. Parlo ovviamente delle Rianimazioni, non so rispondere sugli altri reparti.

Posso chiederle dottore di quanti dispositivi al giorno ha bisogno un operatore sanitario? Quante volte vi cambiate?

Le faccio un calcolo forfettario. Consideri che sono interessati un infermiere ogni 2 pazienti, abbiamo 12 infermieri per ciascun turno, lo deve moltiplicare per tre e abbiamo una dozzina di medici per tutta la giornata. Servono circa 60 tute protettive al giorno. I guanti invece sono migliaia, le mascherine sono circa un paio per ciascun medico e per ciascun infermiere per turno.

In alcuni servizi televisivi vediamo i medici passarsi il disinfettante sui guanti.

Sì certo. Viene fatto di continuo.

Glielo chiedo per far comprendere ai lettori il livello di attenzione e di passaggi che dovete memorizzare. Basta un solo passaggio errato e ci si contamina, no?

Certo, se uno sbaglia i passaggi si contagia. Il gel viene passato sui guanti anche prima di toglierli, quel gesto viene reiterato di continuo. Anche quando semplicemente devo togliere i guanti che ho usato sul paziente, li passo prima col gel e poi li tolgo. E poi ripasso il gel sulle mani o meglio sui guanti che ho sotto, perché io non porto solo un paio di guanti ma ne porto due, a volte anche tre.

Quanto è complicato lavorare con questa armatura? C’è una difficoltà motoria?

Sì, tutto viene rallentato. Abbiamo alle volte anche tre divise, se devi passare da un paziente all’altro hai la divisa che serve a proteggere te ma per evitare di passare batteri e germi, perché nel frattempo i pazienti possono essere anche infettati da altri batteri, devi cambiare la divisa che hai sopra quella di protezione.

I tre reparti di Rianimazione sono fisicamente distaccati tra loro. Ogni volta che va in un reparto deve spogliarsi e rivestirsi, giusto? Quanto tempo ci vuole?

Sì certo. Ogni volta bisogna spogliarsi e rivestirsi e a volte anche più di tre volte al giorno, se siamo chiamati in consulenza in altri reparti per esempio. Ci vogliono mediamente venti minuti e la fase più delicata è la svestizione. Ci si sveste sempre in due per controllarsi a vicenda.

Una curiosità che ho sempre avuto dottore in questo mese di pandemia riguarda l’urbanistica ospedaliera, alla luce degli ospedali da campo costruiti ad Wuhan e adesso a Rho Fiera. Le nostre rianimazioni sono troppo piccole? Troppo divise in piccoli spazi? Troppo piene di superfici a rischio contaminazione? Sono coerenti con i percorsi dedicati, quasi militari che vi vengono richiesti?  Il fatto di avere spazi così ridotti complica il vostro lavoro visto che siete armati con così pesanti corazze?

Certo, è naturale che se io devo raggiungere la mia rianimazione facendo 3 piani di scale a piedi è ben diverso che se posso prendere il primo ascensore che mi capita e che uso solo io. I percorsi devono essere rigidamente separati, se questo comporta anche un piccolo sacrificio da parte nostra non può che essere così. Il percorso di entrata in una condizione biologica, ossia pulito, non può essere quello di uscita, con degli abiti ed indumenti che sono certamente contagiati.

Sono stati facilitati ai Riuniti?

Sì, lo sforzo nostro è quello. Stiamo realizzando dei percorsi che non si sovrappongono mai.

A Rho Fiera si ha l’impressione di avere un reparto costruito come un lazzaretto manzoniano: aperto e con superfici quasi inesistenti. Questo favorisce una minore concentrazione del virus?

Sicuramente, noi abbiamo dovuto adattare delle superfici che non sono state pensate per un virus dalle capacità così alte di contagio, abbiamo dovuto adattare i reparti ad una situazione per la quale non erano stati progettati. Questo comporta sicuramente che l’ospedale è efficace, diciamo che la scontiamo noi sulla nostra pelle. Tutto è più macchinoso, ma la cosa più importante è che siamo riusciti a realizzare dei percorsi differenziati.

Quanto è complesso stare insieme a pazienti spesso vigili? Quanto è arduo psicologicamente essere il solo loro punto di riferimento ed avere a che fare con pazienti così gravi tutti insieme?

La difficoltà è rincuorarli, è ovvio che c’è una spesa di energia psichica da parte nostra notevole, per cercare di restituire fiducia, voglia di combattere la malattia in persone che stanno lì e non possono avere contatti con i loro familiari, anche se in tal senso noi abbiamo concesso, contrariamente a quello che avviene normalmente, di stare col loro cellulare in reparto, in maniera tale che almeno possono fare video chiamate o chiamate normali con i loro amici e i loro parenti per mantenere una socialità, che sul tono dell’umore ha un effetto benefico.

L’umore basso, come in ogni altra malattia, può accelerare il Covid?

Non diversamente da qualsiasi altra forma di patologia, c’è uno sforzo da parte nostra di rendere il nostro rapporto più costruttivo con loro, con tutta una serie di suggerimenti che ci hanno dato gli psicologi dell’ospedale in modo da rendere il rapporto con loro meno meccanico e rigido di quello che è necessario.

Immaginava nella sua vita di dover diventare un giorno un eroe della Patria?

(sorride, schernendosi) ma quale eroe…

La classe medica è sovraccaricata di responsabilità, lo avrebbe mai immaginato nella sua vita?

 No, così no, sinceramente. Onestamente così non lo immaginavo.

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