“La sensazione è che tutto intorno si fermi, si congeli”. Il racconto del contagio Covid del responsabile della Rianimazione foggiana Livio Tullo

by Antonella Soccio

“Da un punto di vista medico, razionale, ho fatto quello che andava fatto. Ora il nemico è la mente, quella parte deviata che circola senza fuga dentro ipotesi sconsolanti. Perché alla fine una moneta può cadere con la stessa probabilità da entrambe le facce, e non si sa perché a un certo punto la mente prevede che cada sempre dalla stessa…quella in cui perdi…”.

A parlare , con profonda sincerità, da una stanza delle Malattie Infettive del Policlinico di Foggia è il dottor Livio Tullo, anestesista e rianimatore, responsabile della Struttura Semplice di Terapia Intensiva degli Ospedali Riuniti, medico in prima linea nella lotta al Covid-19, che è risultato positivo al Coronavirus come altri suoi 5 colleghi.

In questi terribili mesi pandemici il dottor Tullo non ha mai abbassato la guardia, il suo reparto, diretto dalla Primaria Gilda Cinnella, ha risposto con estrema professionalità e competenza alla prima ondata del virus.

Noi di bonculture lo abbiamo intervistato a distanza, non soltanto sociale, ma stavolta totale. Il medico, isolato, è solo con se stesso. In compagnia ravvicinata di quel nemico invisibile, di cui ormai conosce quasi ogni caratteristica.

Dottore, come ha scoperto di essere positivo? Aveva qualche sintomo?

Ho scoperto di essere positivo perché si era verificato un caso accertato nel nostro reparto. I sintomi durante i giorni precedenti all’esecuzione del tampone sono stati assenti. Quindi non sono stati i sintomi a condurmi alla convinzione di eseguire il tampone. Se non ci fosse stato quel caso accertato forse non l’avrei nemmeno fatto il tampone. È stata una disposizione di prudenza legata al fatto che c’era stato questo caso positivo in reparto per cui tutti quanti noi colleghi ci siamo adeguati alla prudenza di eseguire il tampone.

Come si sente adesso? Come si sta curando? Ha perso il gusto?

Mi sento tutto sommato bene e spero la malattia evolva mantenendo questo livello di sintomatologia. Naturalmente dico “spero” perché anche in questo abbiamo imparato a capire che l’evoluzione può riservare diverse sorprese a medio termine. Sono contento che sia una sintomatologia contenuta e spero che finisca così come è cominciata. Per fortuna non ho perso né l’odorato né il gusto ed è molto importante perché in questa condizione di isolamento, di impossibilità di muoversi, in questa condizione in cui tutte le nostre abitudini vengono tranciate di netto anche il piacere di poter apprezzare il profumo del caffè al risveglio è importante.

Cosa ha provato quando le hanno comunicato l’esito del tampone?

Il momento in cui ti comunicano l’esito è sempre un momento molto brutto. La sensazione che hai è che tutto intorno si fermi, si congeli. Ammetto di essermi prefigurato questo momento diverse volte in questi mesi perché le occasioni, le possibilità di contagio, sono state innumerevoli anche per la tipologia specifica del nostro lavoro che ci porta a stare a contatto con pazienti che producono aerosol. Alcune particolari procedure come l’esecuzione di tracheotomie sono procedure in cui si ha diffusione nell’aria di notevole quantità di particolato che può diffondere il virus. Forse inconsciamente mi ero già immaginato questa scena. Certo, un conto è immaginarlo un conto viverlo però in qualche modo è stato utile perché mi sono rifatto a quei momenti in cui mi ero ripromesso di non perdere la lucidità.

C’è un meccanismo di senso di colpa per aver abbassato la guardia in qualche modo?

No ma di fatto se c’è stato un contagio deve esserci stato per forza un momento in cui l’attenzione è calata anche se non riesco a ricordare quale momento. È ovvio che da un punto di vista scientifico questo da qualche parte deve essere avvenuto.

Lei ha vissuto da medico gli stadi peggiori di questa malattia, quanto influisce sulla paura che ha adesso da paziente?

La paura poggia le sue radici su quella enorme libreria di casi clinici che ormai sono stampati nella nostra memoria e naturalmente riaffiorano tutti quanti. Perché ci siamo trovati in prima linea a combattere forse la fase peggiore di questa malattia. Ricordiamo che la nostra specialità è quella che cura questa malattia nei momenti in cui c’è necessità di maggiore intensità di cura. Fondamentalmente come se avessimo avuto una selezione dei casi più gravi.

E quindi quei casi che hai curato da vicino per giorni, con cui hai convissuto giorno e notte adesso riemergono alla nostra memoria.

E cosa succede?

L’operazione psicologica da fare è gestire in qualche modo questo bagaglio di ansia e di tensione e non c’è alternativa. Non c’è possibilità che i ricordi non riemergano. Non c’è possibilità che la mente scientifica di un medico non pensi alla possibilità di poter essere uno di quei casi e quindi devi solo concentrarti ad essere un bravo paziente. In questo momento mi sento un paziente, rispettando i tempi dei controlli e della terapia sottoponendomi con correttezza a tutte le procedure che stanno attuando i colleghi che mi stanno curando.

Sta seguendo il protocollo?

Sì eparina, cortisone, rocefin e remdesvir.

Siete arrivati stanchi a questa seconda ondata? La percezione è che i livelli di attenzione siano calati.

La prima volta ci siamo trovati davanti a una malattia di cui non sapevamo assolutamente nulla. Questa volta invece forse il fatto di aver avuto più esperienza ci ha aiutato a gestire le situazioni più problematiche. È pur vero che a differenza della precedente ondata, non possiamo usufruire del vantaggio del lockdown che nella prima fase ci aveva aiutato moltissimo. È stata una delle armi vincenti nella prima ondata. La mancanza di lockdown ha ricreato il meccanismo di sovraffollamento degli ospedali e il sovraffollamento è uno dei fattori che rende difficile la cura di una malattia che in condizioni differenti potrebbe essere sicuramente gestita meglio.

L’estate ci ha dato sicuramente modo di riprendere fiato e questo è innegabile. La stanchezza è legata alla tipologia stessa della malattia. È una malattia che si presenta a ondate e molto facilmente sopravanza le capacità del personale di poterla fronteggiare. Personale che dovrebbe essere aumentato ma aumentare personale preparato a questo tipo di lavoro non è una cosa semplicissima. Non è una cosa che si può realizzare in pochi mesi. Preparare professionisti come i rianimatori è un progetto che deve nascere molto prima. Di fatto questa pandemia rende l’attuale personale in servizio carente.

Che percezione ha della malattia? Il virus che finora aveva solo combattuto da medico, com’è quando è nel corpo? Cosa prova?

La percezione è sostanzialmente psicologica perché, come dicevo, la mente passa in rassegna tutti i diversissimi multiformi quadri clinici che in questi mesi abbiamo imparato a vedere.

Qual è la fragilità fisica maggiore in cui si incunea?

L’età sicuramente. Il tempo passa per tutti e ti rendi conto di essere comunque in una fascia a rischio, quella fascia d’età che noi, come medici, pensiamo riguardi soltanto gli altri e poi in realtà impariamo a riconoscere che riguarda anche noi.

Lei non è il primo rianimatore ad ammalarsi ma di certo i numeri di contagi nel suo reparto sono importanti, ricordiamo che si tratta al momento di sei persone, tre medici e tre specializzandi.

Si è chiesto come può aver preso il virus? Che risposta si è dato?

È chiaro che la mente torna indietro e ripercorre i vari momenti possibili. In considerazione del fatto che i momenti di socialità nella vita privata si sono ridotti quasi a zero (io ricordo solo una cena con pochissime persone tra l’altro tutte risultate negative) ritengo che l’unico momento in cui potrebbe essere stata abbassata la guardia è la famosa fase della svestizione che avviene nella fase in cui è maggiore la stanchezza e hai a che fare con del materiale altamente contagioso in un momento in cui la stanchezza potrebbe farti abbassare la guardia. Non riesco a intravedere onestamente altri momenti.

Sicuramente il contagio è avvenuto in una fase di piena ripresa lavorativa e in una fase in cui l’andamento della pandemia è divenuto di nuovo importante. Certo il virus era presente sia in ospedale per il numero notevole di pazienti sia al di fuori di esso. Sappiamo che sta circolando.

Com’è vivere l’ospedale da paziente?

Mi colpisce la dedizione e la cura dei colleghi e del personale medico e paramedico che si dedica con abnegazione a questo lavoro. E mi rendo conto di quanto siano spesso esagerate le critiche fatte a livello di assistenza nei nostri ospedali. Da medico fare l’esperienza del paziente è importante perché ti offre una prospettiva diversa e maggiore consapevolezza.

Il dottor Tullo durante il sopralluogo di qualche settimana fa nella nuova rianimazione che sorgerà al Deu

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