La Primaria di Anestesia e Rianimazione Gilda Cinnella, tra impotenza e consapevolezza: “Il Covid ha capovolto tutto quello che conoscevamo”

by Daniela Tonti

Mentre ci si prepara con cautela e non senza difficoltà alla ripresa delle attività operatorie e ambulatoriali e si guarda con una certa apprensione alla fine del lockdown, agli Ospedali Riuniti di Foggia si sperimentano nuovi approcci clinici in remoto come la tele-cardiologia e tele-rianimazione per ridurre al minimo i contatti e i pericoli di contagio.

La limitazione delle consulenze specialistiche ridotte all’osso ha messo in evidenza le eccellenze dell’equipe di alcuni reparti chiamati a essere sempre più autosufficienti perché “chi fa da sè” è il vero mantra – nemmeno troppo sommerso – di questa emergenza. Reparti come la Pneumologia, le Malattie Infettive o la Rianimazione hanno dimostrato, laddove ce ne fosse bisogno, la loro estrema capacità di adattamento. E se in Rianimazione ad esempio è possibile eseguire anche esami come complesse ecocardiografie senza spostare il paziente o chiamare medici in consulto è solo grazie alla formazione dei professionisti che vi lavorano. 

Noi di bonculture siamo tornati al reparto di Rianimazione degli Ospedali Riuniti di Foggia per incontrare la primaria Gilda Cinnella, professoressa ordinaria dell’Università degli Studi di Foggia e direttrice della scuola di specializzazione.

Insieme al responsabile del reparto il dott. Livio Tullo e a tutto lo staff ha trascorso mesi in prima linea fronteggiando una malattia che ha ribaltato “tutto quanto c’era di conosciuto”. Con loro abbiamo parlato a lungo del decorso della malattia, delle cure, del senso di impotenza, dei momenti peggiori e delle speranze per il futuro.

Ecco l’intervista alla professoressa Cinnella.

Professoressa al momento nel suo reparto ci sono sei pazienti covid, tutti ricoverati da moltissimo tempo. Ci dice qualcosa sul decorso di questa malattia che sembra essere lunghissimo?

La malattia ha una durata estremamente variabile. Le dico che proprio giovedì mattina noi abbiamo avuto finalmente la negativizzazione di un paziente dopo 65 giorni, un paziente che sta da noi in Rianimazione dalla prima settimana. Ci sono altri pazienti che si negativizzano dopo 15-20 giorni. È una malattia che ha una durata molto variabile e questo vale anche per gli asintomatici, non solo quindi per chi ha delle forme clinicamente significative della malattia.

Perché succede? Che idea vi siete fatti?

Non abbiamo i dati per dire perché questo succeda, probabilmente dipende da due fattori: da una parte la carica virale e cioè se uno si è ammalato perché ha avuto un contatto con una sola persona o se si è ammalato – come per esempio succede nei focolai ospedalieri – perché è stato a contatto con più persone e ha avuto una carica virale più elevata. Questa potrebbe essere una spiegazione. Un’altra spiegazione potrebbe essere quella che le difese dell’organismo agiscano in maniera diversa e che quindi ci sia chi risponde meglio e prima rispetto a chi ha una risposta immunitaria più lenta.

È un punto molto interessante perché è alla base dell’aspetto di cui si sta parlando molto in questi giorni che è la terapia con il plasma. Noi infatti sappiamo che i pazienti che hanno avuto il coronavirus sicuramente sviluppano degli anticorpi però alcuni pazienti sono i cosiddetti iperimmuni quelli che sviluppano una quantità di anticorpi maggiore e soprattutto che hanno anticorpi specifici nei confronti di quei recettori del virus che sono più implicati nella sua pericolosità.

Anche a Foggia si sta partendo con la selezione dei pazienti iperimmuni. Quali sono le percentuali? Si conoscono già?

La percentuale è variabile. Non ci sono dati chiarissimi però diciamo che noi ci aspettiamo che la percentuale possa essere intorno al 50% dei pazienti che hanno avuto il covid. Non tutti i pazienti sviluppano una quantità tale da potere essere considerati iperimmuni. E stiamo cercando di capire se questo coincida con una minore durata della positività al virus che non vuol dire durata della malattia.

Lei prima parlava di questo paziente negativizzato dopo 65 giorni. Due mesi in rianimazione sono tantissimi.

Questo paziente è ancora in rianimazione per altri motivi. Ha un problema neurologico a seguito di una caduta. Quando gli abbiamo fatto la tac abbiamo scoperto che aveva una lesione polmonare risultata poi da covid e quindi la malattia è stata scoperta per caso. La sua permanenza in rianimazione dipende dalla lesione neurologica.

Che danni porta una malattia così tanto lunga agli organi? Va a ledere solo i polmoni?

Ci stiamo facendo un’idea. È una malattia completamente diversa da tutto quello che abbiamo mai studiato, è stato uno shock per noi. Tutto quello che sapevamo l’abbiamo dovuto capovolgere per riadattarlo. Al momento stiamo rilevando che ci sono dei danni postumi. È come se si creassero delle cicatrici negli organi colpiti soprattutto nei polmoni ma non solo nei polmoni. Abbiamo visto lesioni in altri organi come il fegato o la milza e facendo altre tac a distanza di tempo abbiamo rilevato che queste lesioni tendevano a ridursi formando delle piccole cicatrici quindi un qualcosa che rimane.

C’è la possibilità che persistano delle lesioni polmonari che potrebbero portare a una cronicizzazione tant’è vero che i pneumologi hanno attivato un ambulatorio per seguire i pazienti anche a distanza di tempo dopo la dimissione. La ripresa funzionale vera non è rapidissima.

Che significa?

Che anche chi guarisce poi per parecchio tempo continua ad avere uno stato di astenia, un po’ di tosse, molto affaticamento. Diciamo che la ripresa è molto lenta.

Questo ambulatorio attivato in pneumologia per i guariti è un passaggio previsto da protocolli specifici o una vostra iniziativa? Da cosa è partito?

Dai pneumologi che si sono resi conto che molti pazienti li chiamavano perché non si sentivano bene ed erano anche molto spaventati. Quindi la professoressa Foschino insieme al suo gruppo ha capito che era necessario continuare a vederli e che dovevano vederli loro perché è una patologia talmente particolare che chi ha fatto un’esperienza sul campo e li ha visti ha un occhio diverso e elementi di valutazione in più. Sono pazienti che hanno bisogno di essere seguiti da chi li ha già trattati.

Qual è stato il momento per lei più difficile?

Le prime settimane nel mese di marzo sono state il momento peggiore. È stato terribile. Abbiamo avuto il primo paziente il 7 marzo, poi per una settimana abbiamo avuto 2 pazienti e siamo passati nel giro di un’altra settimana da 2 a 20 solo in rianimazione. Questo ha  significato aprire nel giro di tre giorni altre due rianimazioni, con tutto quello che significa di attrezzature, di personale, di dover accertarsi che ci fosse tutto. È stato veramente molto, molto difficile. Soprattutto il senso di impotenza. Cioè tu hai un paziente di cui hai capito la gravità ma nei confronti del quale hai pochissime armi in mano per poter intervenire.

Ma voi non siete in un certo senso abituati ai casi disperati?

No, assolutamente. Noi nel nostro lavoro di rianimatori abbiamo i farmaci. Abbiamo gli antibiotici. E questo è un virus nei confronti del quale non c’è una terapia specifica. Vedevamo pazienti che sembrava stessero bene, lentamente peggiorare e improvvisamente iniziavano a stare malissimo e tu… qualunque cosa facessi non riuscivi a recuperarli. È stato terribile. Pazienti a cui ci eravamo affezionati e venivano a mancare. Abbiamo fatto tutto il possibile però la malattia è bruttissima, mi creda.

Come vive la riapertura sociale e la fine del lockdown. Cosa prova?

Sinceramente un po’ mi spaventa, anche se mi rendo conto che è necessaria perché c’è la componente psicologica ed economica. Mi spaventa la superficialità. Ci vuole un po’ di tempo per essere certi che sia veramente finita non bisogna abbassare la guardia.

E il suo mestiere come è cambiato?

È cambiato moltissimo. Penso per esempio alla difficoltà nei movimenti sotto i dispositivi. Noi medici usiamo il fonendoscopio beh, in questa situazione non lo puoi usare. Non puoi metterlo nelle orecchie, non puoi visitare il paziente perché hai minimo due paia di guanti. È tutto più rallentato e abbiamo dovuto re-imparare a muoverci all’interno del reparto, ci vuole mezz’ora per vestirsi e più tempo per svestirti che è ancora più pericoloso. C’è una componente di stress psicologica molto forte.

Siete stati seguiti da un equipe di psicologici.

Abbiamo chiesto noi il sostegno degli psicologi e stiamo continuando ancora adesso una volta a settimana. Abbiamo un gruppo con gli psicologi dell’ospedale ed è una cosa che ci sta piacendo molto. Mi permetta di dire che il mio è un gruppo di lavoro straordinario e tra di noi si è creato un senso di unione e di solidarietà che c’era prima ma era diverso.

Voi avete vissuto un’esperienza anche storicamente extra-straordinaria e lo avete fatto in prima fila. Cosa si sente di dirci?

Se posso dire un aspetto negativo ci sono stati momenti in cui tutti noi che trattavamo i pazienti covid ci siamo sentiti non supportati dal resto dei colleghi dell’ospedale. L’amministrazione ci ha supportato al 100% ma non nascondo che abbiamo avuto un po’ di difficoltà invece a interagire con gli altri colleghi. È capitato purtroppo che ci siano stati colleghi di altre discipline che si siano rifiutati di venire a fare le consulenze nei reparti covid, con tutto quello che ne consegue in termini di aumento di carico di lavoro su di noi o che pretendevano di fare le consulenze telefoniche e qualche volta abbiamo dovuto alzare la voce.

Molti medici si sono in un certo senso asserragliati nei reparti vuoti e non sono usciti nemmeno per le consulenze nel vostro reparto. Come l’avete vissuta?

Abbiamo vissuto un po’ male il fatto che noi lavoravamo giorno e notte e intendo tutto il mio gruppo di lavoro e i reparti interessati mentre i reparti nei quali l’attività era praticamente sospesa non si siano fatti avanti.

Ci sono stati 2-3 colleghi che hanno avuto la generosità di dire “visto che nel mio reparto non sto facendo nulla vado a lavorare con i covid”. Ci sono 2-3 colleghi che lavorano al Pronto Soccorso ancora adesso

Solo 2-3? Che si prova?

Sì questa è una cosa che mi dispiace molto sinceramente. Lei pensi che ci sono stati degli specializzandi che sono andati volontariamente a lavorare nei reparti covid ma sono 3-4 rispetto alla quantità di specializzandi che abbiamo all’università. Ma ecco anche da parte dei colleghi sarebbe stato bello se qualche collega in più avesse dato una mano.

Manca l’ispirazione, il senso di comunità?

Io capisco anche la paura. Il timore di infettarsi, però io le potrei raccontare di un collega anestesista in pensione che è andato a Bergamo a lavorare nei reparti covid. L’aspetto negativo è che qui abbiamo avuto colleghi molto più giovani che hanno mandato lettere in direzione “dicendo io non voglio correre rischi”.

E forse se hanno paura della malattia hanno sbagliato mestiere.

No comment.

Com’è cambiata la sua vita?

La mia vita è cambiata completamente. Dopo una settimana mi sono resa conto che mio marito e mio figlio erano molto preoccupati ma non volevano farmelo capire e io stessa mi sono resa conto di essere potenzialmente pericolosa per cui sono andata a vivere lontano da casa. E sono stata lontana quasi due mesi. Sono tornata a casa a Pasqua facendo in modo di fare il tampone periodico di controllo il sabato santo in modo tale che ho potuto passare la domenica con la mia famiglia.

Poi sono tornata dopo un mese. È stato molto pesante. Ma non sono l’unica, molti colleghi si sono organizzati. Qui in ospedale c’era una foresteria a disposizione e ci hanno dato una mano, ma stare lontano da casa è stata dura.

Quanto è difficile essere una donna in questo mestiere?

È difficilissimo. A parte l’aspetto famigliare non è per niente facile.

Per l’utenza?

No, l’utenza si è abituata al fatto che ci sono più donne medico che non uomini, naturalmente ce ne sono molte meno se sali nella scala delle responsabilità.  Ma devi lavorare più degli altri, più dei colleghi uomini per dimostrare che sei all’altezza del ruolo che ricopri.

Avete ripreso l’attività operatoria?

L’attività operatoria non l’abbiamo mai sospesa adesso stiamo cercando di ricominciare con un’organizzazione che prevederà la valutazione dei pazienti per la sicurezza degli operatori perché un paziente positivo che dovesse sfuggire al check rischierebbe di innescare un nuovo focolaio.

Ultimamente ci sono molti progetti di telemedicina tra cui la telerianimazione come bonculture ha anticipato la scorsa settimana. Questo progetto che si chiama Smartwews aumenterà i carichi di lavoro?

Glielo dirò quando partirà. Sicuramente i dati accertati da tutta la letteratura scientifica internazionale dicono che ci sono alcuni indici predittivi che consentono di capire quando il paziente sta peggiorando e non parliamo solo di covid ma in generale. È quella piccola finestra temporale in cui un paziente da instabile diventa critico ed è il momento in cui tu puoi intervenire con chance di successo maggiori. E consiste nell’utilizzo di score predittivi che si basano su parametri semplicissimi, che dovrebbero essere registrati da parte di un apparecchio che ti avvisa che un paziente sta diventando instabile. È uno strumento molto utile. Secondo me la spesa vale l’impresa.

Il Responsabile del reparto Livio Tullo con lo staff
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