“Il decorso è molto brutto. E lungo. Questo virus ha un’altissima infettività”. A colloquio con l’infettivologo Sergio Lo Caputo

by Daniela Tonti

Sergio Lo Caputo è professore di malattie infettive all’Università degli Studi di Foggia. Docente di lungo corso, ha vissuto nella sua carriera la diffusione di molte altre zoonosi, per certi versi anche più spaventose e stigmatizzanti del Covid-19 nell’immaginario collettivo (come l’HIV) e oggi è impegnato in prima linea in un reparto dai confini strutturali in divenire dove il numero dei pazienti aumenta giorno per giorno.

L’abbiamo incontrato al piano zero della Palazzina delle Malattie Infettive al Policlinico Riuniti di Foggia per farci spiegare i meccanismi di contagiosità da contatto e droplet, le modalità efficaci di quarantena casalinga e lo stato di salute dei pazienti ospedalizzati.

Professore ci può spiegare come avviene il contagio? Si è parlato molto dei pericoli anche nei sistemi di areazione. È così? Si trasmette nell’aria?

No assolutamente. Non è l’aria infetta.  Il problema vero è che ci possono essere persone completamente asintomatiche che non sanno di avere il virus e solo in questa maniera, con le accortezze di mascherine e guanti, si riduce il rischio. Come il caso di una persona  asintomatica che va in una rsa o in un ospedale, come è già successo quando non c’erano queste misure, ha il virus e può contaminare.

Dal punto di vista epidemiologico avete avuto modo di ricostruire i casi?

Sì stiamo ricostruendo e c’è tutta una serie di collegamenti. I veri focolai sono diventati le strutture sanitarie.

Le rsa o gli ospedali?

Le residente sanitarie e le strutture e purtroppo a volte il grandissimo lavoro di mettere le persone positive lontane da quelle negative non basta a scongiurare il pericolo. Ci sono alcune persone negative a cui il tampone è stato fatto troppo presto e che quindi infettano gli operatori e gli altri pazienti.

Avete accolto pazienti dalle rsa?

Si.

Che ruolo hanno i farmaci in questa malattia?

Il decorso è molto brutto. E lungo. Ci sono moltissimi casi che vanno bene nel senso che c’è chi non ha grossi problemi e non sviluppa proprio la polmonite e quelli per fortuna possono stare a casa. Ci sono altri che fanno una polmonite abbastanza contenuta, altri che hanno bisogno di ossigenoterapia ma non evolvono e altri purtroppo che evolvono. I farmaci svolgono un ruolo parziale al momento non rilevantissimo. Abbiamo usato anche quel farmaco in vena per l’artrite e ci ha dato risultato molto soddisfacenti. Il problema è che non ce n’è.

Nel senso che non si trova?

Non si trova.

Abbiamo sentito che il decorso della malattia dipende anche dall’età. Ci dice qualcosa dei suoi pazienti?

Giovanissimi non ce ne sono.  Dobbiamo iniziare a pensare a pazienti del 1980 tra i più giovani ma quelli hanno generalmente un buon decorso, ci sono rarissimi casi di pazienti intorno ai cinquant’anni che possono avere un’evoluzione e in alcuni casi abbiamo avuto quale decesso. Anche se la maggior parte dei decessi sono tra ultraottantenni.

C’era qualcosa che li accomunava, prendevano farmaci particolari?

No questa è una notizia infondata. Le persone anziane hanno quasi sempre delle co-morbidità, alterazioni dal punto di vista cardiaco, respiratorio e quindi se sopraggiunge una polmonite di questo tipo, virale interstiziale su una persona che ha problemi cardiaci e respiratori diventa un problema. È un problema anche con l’influenza quando alcune di queste persone sviluppano la polmonite. E non dobbiamo dimenticare che molti anziani muoiono nella stagione invernale per questo motivo. In questa situazione è ancora più frequente perché la polmonite è più intensa. Se si aggiungono poi patologie come obesità, diabete, problematiche renali, queste persone risultano ancora più fragili e alcune volte alla polmonite da coronavirus può partire una sepsi e anche con l’ausilio di antibiotici è difficile recuperarle. Ecco perché abbiamo un elevato numero di decessi dai 75 anni in su.

E nei giovani che succede?

I casi più giovani sono intorno ai 50 anni e può succedere che la risposta dell’organismo a livello polmonare sia così marcata per cui si ha un’eccessiva reazione infiammatoria. Questa eccessiva reazione impedisce gli scambi di aria e quindi si ha una grave insufficienza respiratoria. L’utilizzo del farmaco tozicilubam fatto in maniera precoce ha dato risultati molto molto interessanti nel senso che queste persone non sono finite in rianimazione quindi un dato molto positivo. Tuttavia somministrato in una situazione molto avanzata non ha dato grandi risultati.

Il problema è che in pochi soggetti giovani ci può essere questo tipo di reazione molto intensa e bisogna ricorrere alla rianimazione sperando che quell’organismo a poco a poco migliori.

Altre caratteristiche?

Un’altra caratteristica è la durata. Non è una malattia che si risolve in cinque sette giorni. È un decorso lungo quindi facilmente il paziente deve stare almeno un paio di settimane ricoverato da noi. E poi valutare. Perché la negatività di due tamponi di seguito che permettono di dire che una persona è guarita completamente è una negatività che spesso arriva ben oltre le due settimane, dobbiamo pensare ad almeno tre settimane.

Ci sono persone clinicamente guarite che hanno risolto la loro polmonite, stanno bene , non hanno bisogno di ossigeno non hanno più febbre non hanno nessun sintomo e logicamente vogliono uscire perché una situazione di isolamento di questo tipo crea anche un disagio psicologico importante.

Per questo sono nate le aree post acuzie?

Abbiamo al D’Avanzo e al Policlinico una area post critica, post acuzie. Quest’area permette di mettere le persone che stanno bene ma hanno ancora il tampone positivo. E sono tante le persone avviate verso la guarigione.

È un dato positivo?

Assolutamente è un dato positivo però capite bene che una degenza che varia dalle due alle tre settimane con un impegno anche in termini di assistenza respiratoria è un qualcosa che porta un grosso impegno di dispositivi di protezione di assistenza medica, di posti letto, di regime di isolamento. Anche se con le strutture organizzate dalla direzione generale, dalla direzione sanitaria devo dire che si riesce a garantire un livello di assistenza molto molto elevato.

Se continuiamo ad alimentare questo circolo virtuoso dove i pazienti entrano ma anche escono riusciremo a sopportare questo graduale aumento che stiamo osservando negli ultimi giorni ma soprattutto nell’ultima settimana.

Siamo nella fase ascendente?

Sì e i casi stanno aumentando. Avere dei posti di rianimazione è fondamentale perché quando il paziente precipita dal punto di vista di situazione respiratoria e richiede il rianimatore deve andare in rianimazione perché qui e in pneumologia c’è tutto un livello di assistenza dal punto di vista ventilatorio che arriva fino a un certo punto.

Professore che problemi comporta la quarantena casalinga, questi pazienti non sono delle bombe infettivologiche pronte a esplodere?

Se la quarantena è fatta bene non è un problema ed è terapeutica per il resto della popolazione non contagiata. Certo, bisogna stare in una situazione dove la quarantena sia permessa anche dagli ambienti dove effettivamente non si sta in quattro in un’unica stanza. L’ideale è che la persona abbia la sua camera da letto con il suo bagno.  Però anche un eventuale bagno in comune non crea problemi se si ha l’accortezza di passare anche la semplice candeggina dopo averlo utilizzato perché il virus può essere eliminato anche in grande quantità con le feci. Oltre alle minime distanze e all’utilizzo della mascherina chirurgica in casa seguendo sempre le normali misure di igiene.

E il fatto che il virus permanga sulle superfici?

È vero che ci sono dei lavori che hanno dimostrato che il virus può rimanere per diverso tempo sulle superfici ma innanzi tutto bisogna vedere la quantità di virus che rimane sulle superfici.

Con un colpo di tosse o con uno starnuto vengono emesse grandi quantità di virus e quindi la persona che ha questo tipo di contatto viene a contatto con tanto virus. Una superficie invece presuppone un paziente che è passato e ha inquinato e più tempo passa meno virus c’è. Con le mani noi andiamo a toccare le superficie e portaci le mani agli occhi, al naso e alla bocca che sono le vie di ingresso. Anche in questo caso il concetto delle mani pulite permette di ridurre drasticamente quella che viene chiamata l’infezione da contatto non per droplet ma attraverso superfici inquinate.

Riguardo questa zoonosi, siamo davanti a un virus che ha fatto un salto di specie. Come è stato possibile? Se ne leggono molte sulle abitudini alimentari o le condizioni igieniche dei mercati asiatici.

Guardi quello che gira su internet è drammatico. L’Oms ha coniato un termine infodemia, una epidemia di eccessive informazioni. Molte di queste informazioni sono informazioni completamente false e purtroppo creano soltanto paura nella popolazione.

Il dato più importante è che sono tantissime le malattie che dagli animali passano all’uomo basti ricordare una completamente diversa che è l’HIV.

Non ci ha messo una settimana, non ci ha messo dieci giorni. Anche la stessa influenza ogni anno è diversa perché il virus cambia, muta nei maiali – anche qui sempre nelle regioni asiatiche – e dato lo stretto contatto tra animali e uomo si ha questo passaggio di specie.

L’OMS in tempi non sospetti ha sollevato sempre il timore del verificarsi di una situazione di questo tipo.  L’opinione pubblica ha sentito parlare della Sars, ha sentito il discorso dell’aviaria, qualcuno ha avuto l’H1N1 ma questi virus respiratori hanno sempre rappresentato la grande paura per l’OMS per lo sviluppo di una pandemia, cosa che purtroppo si è verificata in questo caso.

Diceva dell’HIV che è passata dalle scimmie all’uomo. In questo caso invece l’animale sembra essere stato il pipistrello.

Il collegamento dell’analisi filogenetica ha dimostrato che dei virus del coronavirus (che si chiama Sars Cov-2 e che provoca il Covid 19 come malattia) hanno delle caratteristiche filogenetiche destrutturali che sono molto simili a quelle dei pipistrelli che sono uno dei serbatoi più grandi di virus.

Per cui il salto di specie può essere avvenuto e bisogna spiegare che il salto di specie è avvenuto nel corso del tempo. Non è che se per una sera una persona ha dormito con un pipistrello in casa il giorno dopo si è infettato.

Un virus per diventare patogeno per l’uomo e fare il salto di specie ha bisogno di tantissime replicazioni di tantissime situazioni quindi qualcosa che è avvenuto nel tempo come già documentato per altre malattie.

Fa un salto di specie in specie?

Può fare un salto di specie in specie ma anche da una specie animale a un’altra specie animale che a sua volta può arrivare a infettare l’uomo. È logico che i contatti stretti tra animali selvatici e uomo possono favorire questo salto di specie.

E non è così facile e poi una volta che il virus è arrivato nell’uomo per diventare trasmissibile da uomo a uomo deve a sua volta modificarsi

Perché l’aviaria non era trasmissibile da uomo a uomo ma solo da uomo ad animale, giusto?

Esatto. Sars e Mers – che hanno una letalità molto superiore al Covid-19 – hanno una bassa infettività e si sono poco diffuse e infatti siamo riusciti a fermarle nelle aree in cui si erano sviluppate mentre invece questo virus è caratterizzato da un’altissima infettività pur avendo una letalità minore rispetto alle altre malattie.

Anche se dobbiamo valutare questa letalità che c’è in Italia che è troppo alta specie in alcune zone anche perché viene detto che ‘uno è morto di Covid-19’ anche quando una persona è morta di tutt’altro e anche alcune autopsie lo hanno dimostrato. Nel senso che ci sono persone che sì erano positive al virus ma la loro morte non è stata assolutamente provocata da questo.

E può essere vero anche il contrario? Cioè che ci sono stati morti di Covid non certificate?

No. Mentre in Cina non si sa assolutamente la verità su quante persone sono decedute e loro nella fase acuta non sono stati a vedere se i decessi avvenivano per covid o no, in Italia c’è stata sempre una grandissima attenzione.

I morti ci sono e sono forse un po’ di più di quelli legati strettamente alla malattia

Lei ha avuto a che fare con malattie più spaventose nell’immaginario collettivo come l’HIV.

Io ho vissuto pienamente da neolaureato l’HIV. L’HIV è stato drammatico perché moriva gente molto giovane, ti sentivi assolutamente impotente. Però l’HIV si prendeva e si prende in determinate maniere per cui se tu fai attenzione l’hiv non lo prendi mentre invece per questa malattia l’unica cosa che abbiamo è di isolarci e isolarci è contro la natura umana e quello che dal punto di vista umano più che professionale mi ha colpito è questo isolamento.

Io sto parlando con lei con la mascherina, non posso stringerle la mano, immagini questo a letto di un paziente.

Quando il medico o l’infermiere stringe il braccio al paziente, lo guarda negli occhi è una forma di trasmissione non verbale che vale molto di più di cento spiegazioni cliniche.

Questi pazienti sono spaventati, il fatto stesso di avere problemi respiratori ti crea ansia e vedono gente bardata di cui a stento riescono a guardare gli occhi. È una sensazione che ci ha colpito tantissimo, ci fa soffrire. Soffriamo assieme ai nostri pazienti. E poi anche la comunicazione con i famigliari. Il telefonino è diventato vitale per queste persone però quando non stanno bene non riescono a parlare.

Tutto questo deve avvenire in una condizione dove ogni dispositivo di protezione è un’ulteriore barriera non solo umana?

Fare un turno con tutti i dispositivi è veramente molto molto faticoso. Ecco perché continuiamo a dire state a casa.

Ci sono persone che non stanno bene e non vogliono ricoverarsi perché hanno paura dell’isolamento, di quello che succede. Però a casa è impossibile in certi casi quel supporto che in ospedale riusciamo ancora a garantire.

Cosa si sente di aggiungere riguardo le misure sociali restrittive?

Non devono aumentare i casi improvvisamente perché altrimenti non riusciamo a gestirli, per non far aumentare i casi dobbiamo contenere i focolai e per contenere i focolai bisogna stare a casa e anche se tutti facciamo tanta fatica dobbiamo farlo. Io vedo poca gente in giro ma vedo anche quelli che non ce la fanno e parlano con altri, perchè magari “è mio amico, sta bene”. E no! Non è così. Basta un asintomatico che parla con una persona e questa persona lo porta in un’altra famiglia e se avviene questo non riusciamo più a garantire l’assistenza.

Pensiamo a situazioni improvvise come la Lombardia o altre parti del mondo dove dobbiamo mettere le persone sintomatiche che stanno male in palestre, in capannoni perché non c’è altro posto e sono tantissime. È  facile capire che è quasi impossibile garantire un livello di assistenza ottimale come riusciamo oggi a fare noi. I colleghi della Lombardia stanno facendo l’impossibile da questo punto di vista ma è materialmente impossibile. E se è stato messo in crisi il sistema lombardo non oso immaginare cosa può succedere in alcune regioni del Sud.

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