“Un Ateneo che non ceda alla tentazione dell’autoreferenzialità”. L’idea del prof Lorenzo Lo Muzio di Rettorato e Unifg

by Antonella Soccio

Direttore del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università degli Studi di Foggia, il professor Lorenzo Lo Muzio, foggiano, riprova la sfida alla corsa per il Rettorato, dopo aver dato rappresentanza in altre due tornate ad un gruppo di docenti dal basso, ben conscio delle potenzialità ancora inespresse dell’Ateneo e del capitale umano della comunità accademica. Presidente del Corso di Laurea Specialistica in Odontoiatria e Protesi Dentaria dell’Università degli Studi di Foggia, presidente della Conferenza Permanente dei Presidenti dei Corsi di Laurea in Odontoiatria e Protesi Dentaria e Vicedirettore del C.I.N.B.O. (Consorzio Interuniversitario Nazionale per la Bio-Oncologia), Lo Muzio questa volta ha raccolto consensi trasversali e compete con l’umanista e direttore del Distum Pierpaolo Limone, che può contare sull’alleanza col professor Agostino Sevi, a guida del Safe.

Noi di Bonculture lo abbiamo intervistato, qualche giorno dopo il faccia a faccia pubblico.

Nel suo corposo e importante programma, professor Lo Muzio, parla di “rimettere al centro di tutto le persone: la loro creatività, il loro entusiasmo, le loro capacità” e di azzerare la “tecnocrazia accademica”. Ritiene che in questi anni l’Unifg si sia burocratizzata?

Quando parlo di “tecnocrazia accademica” non mi riferisco solo alla realtà di Unifg, ma all’intero sistema universitario nazionale. Gli algoritmi e i procedimenti formalizzati, se usati con intelligenza ed equilibrio, sono utili per garantire imparzialità e obiettività nei processi di misurazione del rendimento e del merito e possono essere uno strumento per migliorarsi e assumere decisioni strategiche con maggiore consapevolezza e responsabilità. Se, invece, la tecnocrazia asettica ed impersonale diventa un totem al quale sacrificare la creatività e il talento dei protagonisti del mondo universitario, allora si rischia di rendere le persone strumento di un fine astratto e distante che è l’algoritmo. Se ne stanno rendendo conto tutti gli Atenei e, non a caso, gli stessi ricercatori chiedono una revisione degli attuali sistemi valutativi. Credo che in questi anni anche l’Università di Foggia abbia assecondato troppo la convinzione che la regolamentazione minuta e la burocratizzazione di ogni attività sia garanzia di imparzialità, efficienza e buon andamento gestionale. In realtà l’eccesso di regolamentazione finisce col deresponsabilizzare i decisori, restringe gli orizzonti della programmazione e genera inevitabilmente ridondanze procedurali che rendono l’intera macchina lenta e poco reattiva. Ma un Ateneo che ambisce ad essere realmente competitivo, oggi, non può permetterselo. Servono meno regole, ma chiare, certe ed efficaci. E serve, poi, assoluta trasparenza. Le decisioni prese da chi ha la responsabilità di governare e gestire l’Ateneo devono poter essere conosciute da tutti e tutti devono poterne comprendere le motivazioni per giudicarle. Le persone contano proprio per questo: per la loro libertà e per la responsabilità che ne deriva.

Nel programma scrive che “Foggia deve riscattarsi trasformandosi da città che ospita una Università a Città Universitaria”. Dopo 20 anni di Ateneo a Foggia come mai la città non è ancora percepita come città universitaria? Cosa c’è da fare? Cosa immagina per il campus di Via Caggese?

L’Università di Foggia ha fatto molto per la città. Forse è stata la sua ancora di salvezza. Ma non basta: serve un salto di qualità. Per passare dall’idea che “a Foggia abbiamo l’Università” a quella di “Foggia è una città universitaria” occorre innanzitutto riportare l’Università nel cuore della società civile. Immagino, ad esempio, una grande campagna di comunicazione che permetta ai cittadini di conoscere davvero che cosa è e che cosa fa l’Università. E vorrei che si moltiplicassero le occasioni di incontro e condivisione, soprattutto con i ragazzi più giovani, i nostri futuri studenti e con le loro famiglie, attraverso un cartellone di eventi annuale che possa richiamare in città personalità del mondo della cultura nel senso più ampio del termine, senza paura di aprirci alle novità. Serve un Ateneo che non ceda alla tentazione dell’autoreferenzialità, ma che intervenga, parli con pluralità di voci al territorio, si senta coinvolto nei problemi della Città e abbia anche il coraggio di prendere posizione quando è necessario. Si deve percepire, insomma, che la cultura, la ricerca scientifica e la formazione sono parte integrante della vita cittadina. Serve dare maggiore visibilità alla presenza a Foggia di studenti provenienti da altri Paesi europei con i programmi Erasmus o con altre iniziative di scambio. Sono ragazze e ragazzi che non devono essere accolti dall’Ateneo, ma da Foggia. Un campus all’interno della Città sarebbe una affermazione simbolica, oltre che una realtà tangibile, di questa vocazione alla quale è chiamata tutta la Città.

Come intende cambiare le politiche di reclutamento del personale? In questi anni molti dipendenti hanno scelto altri enti. C’è stata scarsa valorizzazione? E cosa ha impedito alla struttura di valutare la performance dei dipendenti?

Il reclutamento del personale deve essere frutto di una programmazione strettamente correlata ai piani strategici di sviluppo dell’Ateneo. Dobbiamo essere consapevoli di quali professionalità abbiamo bisogno per raggiungere gli obiettivi che ci prefiggiamo e dobbiamo prima di tutto verificare quali di queste competenze siano già disponibili all’interno dell’Ateneo. I programmi di reclutamento devono servire ad acquisire le professionalità che mancano o a sostituire quelle che vengono meno. Anche qui, soprattutto in riferimento al personale docente, le regolamentazioni fatte col bilancino servono a poco. I Dipartimenti universitari, che sono il cuore pulsante della didattica e della ricerca, devono assumere la responsabilità di definire politiche di reclutamento coerenti con gli obiettivi strategici. Sarà il raggiungimento di questi ultimi a certificare la bontà o meno delle scelte operate, con le conseguenze che possono derivarne anche in termini di premialità e di ulteriori possibilità di crescita. Autonomia e responsabilità, come sempre.

In queste settimane ho incontrato quasi tutto il personale tecnico e amministrativo. Quello che ho percepito è un senso di sfiducia generalizzato. Non si tratta solo di dinamiche retributive o di carriera, che sono certo importanti, ma non decisive. Le persone hanno bisogno di sentirsi apprezzate per quello che fanno e, soprattutto, di vivere in un clima lavorativo sereno e più stimolante. Credo che si debba pensare seriamente a progetti mirati all’innovazione dei processi di Unifg che possano, al contempo, offrire nuove possibilità ai dipendenti. Nel mio programma ho formulato una serie di ipotesi e proposte che, da Rettore, voglio condividere con tutti loro.

Per valutare la performance serve prima di tutto avere una anagrafe delle competenze e una mappatura dei processi: dobbiamo sapere meglio chi sa fare cosa e chi fa cosa. Misurare la performance è complesso e bisogna scegliere il punto di vista migliore rispetto agli obiettivi strategici condivisi dell’intera comunità accademica.

Con Piero Angela

Anche il suo competitor parla di potenziamento del Public Engagement con azioni volte ad amplificare gli effetti della comunicazione dedicata alla terza missione, ci può spiegare cosa intende per Public engagement?

In parte l’ho già descritto quando abbiamo parlato di Foggia come città universitaria. Si fa Public engagement ogni volta che si porta l’Università fuori dalle aule e dai laboratori e la si proietta nella società civile. In un territorio oggettivamente difficile come il nostro è un percorso fondamentale. Il vero obiettivo per i prossimi anni non è tanto quello di moltiplicare gli eventi promossi dall’Ateneo, ma di coordinarli perseguendo un effetto moltiplicatore dato dalle sinergie che possono scaturirne. Mi permetta di immaginare l’affermazione di un “brand” Unifg legato alle attività di educazione sanitaria e prevenzione, di promozione del nostro immenso patrimonio artistico, archeologico, storico e paesaggistico, anche attraverso la diffusione di modelli di gestione del turismo culturale per i quali è fondamentale l’apporto dei saperi umanistici ed economici. Penso, anche, allo studio di nuove tecnologie nel campo agro-alimentare: qui ci sono le maggiori potenzialità di quello che si chiama “trasferimento tecnologico”, ossia la capacità di trasformare i risultati della ricerca scientifica in procedimenti tecnici utilizzabili a fini commerciali dal mondo della produzione, delle imprese, delle professioni. Ancora, pensiamo a quanto è stato e può essere importante il dipartimento di Scienze Giuridiche nel promuovere la cultura della legalità nel nostro territorio con iniziative pubbliche che possano coinvolgere singoli e associazioni.

La cultura del fund raising. Quante sono oggi le unità impegnate in Ateneo a reperire fondi per la ricerca?

Non abbiamo unità specializzate, ma tanta buona volontà ed impegno da parte di tutte le persone che si occupano di supporto alla Ricerca sia in amministrazione centrale sia nei Dipartimenti. Sono bravissimi e meritano di essere messi nelle condizioni di fare ancora meglio per supportare i nostri ricercatori, tra i quali vi sono eccellenze assolute nel panorama nazionale ed internazionale. Pertanto è necessario un adeguato piano di formazione per implementare la loro professionalità

Lei cita la collaborazione interdisciplinare tra settori “forti” e settori “deboli”, ritiene che in questi anni alcuni settori siano stati trattati da cenerentola e se sì quali?

Nelle dinamiche di questi ultimi anni ci sono stati alcuni settori oggettivamente penalizzati, ma non mi riferisco solo a questo quando parlo di collaborazione tra settori “forti” e “deboli”. Nel mio Dipartimento abbiamo sperimentato una forma di solidarietà virtuosa che serve ad aiutare chi, per ragioni che quasi mai sono imputabili a demeriti individuali, ha prodotto meno o con minore qualità dal punto di vista scientifico, ad esempio per mancanza di risorse sufficienti per condurre ricerche interessanti ed innovative. Gli esponenti di settori che hanno raggiunto risultati di eccellenza nella valutazione della qualità della ricerca si sono impegnati ad avviare collaborazioni interdisciplinari mettendo a disposizione risorse strumentali, reti di relazioni con altri ricercatori e competenze per facilitare la crescita dei settori che abbiamo definito “deboli”. Un gioco in cui tutti vincono, poiché da un lato sono previsti incentivi per tutti quelli che collaborano, dall’altro si stimolano i settori “deboli” a diventare a loro volta “forti”: un circolo virtuoso che, se innescato, produce ottimi risultati.

Il DARe è stato al centro di tante polemiche. Pensa di dare nuova linfa al distretto? Che informazioni ha sul trasferimento tecnologico? Dopo i primi anni di successi, l’impressione è che lo strumento del distretto si sia un po’ arenato e non solo per i ricorsi. È colpa dell’appagamento per il Gluten Friendly?

Occorre fare sempre tesoro delle esperienze che hanno dato lustro alla nostra Università ed il Consorzio DaRe è sicuramente una di queste. A mio avviso occorre rilanciare il Consorzio ripartendo dallo spirito originario con cui esso è stato concepito e portato avanti dai colleghi Tino Gesualdo e Gianluca Nardone, con un grande impegno anche dell’allora Rettore Volpe che, per un periodo, ne è stato anche Presidente. Proprio il “trasferimento tecnologico” è uno degli asset che occorrono ad un tessuto economico, come quello della nostra regione e della Capitanata in particolare. Occorre implementare con intelligenza un sistema che DaRe ha creato aggiornandolo ai tempi nuovi ed agli scenari economici in evoluzione. Le nostre aziende e le nostre start up possono ricevere grandi vantaggi dall’azione intelligente di un broker dell’innovazione come il DaRe, soprattutto nel settore dell’agroalimentare. Il gluten friendly è stato un prodotto di questa stagione positiva e, come tutte le innovazioni, occorre continuare ad accompagnarla con intelligenza e senza preconcetti di natura diversa da quelli dell’innovazione e del trasferimento tecnologico. La mia visione nei confronti della ricerca e della terza missione è quella di guardare alle cose concrete ed al bene comune: noi operatori della ricerca e dell’innovazione siamo “utili strumenti” e non terminali finali delle nostre attività.

Che effetto le fa essere considerato il candidato della discontinuità?

Nessuno in particolare. Le etichette che arrivano dall’esterno sono frutto della percezione degli altri. Non mi piace parlare di continuità o discontinuità: io guardo al futuro della mia Università e vorrei mettere a disposizione il mio modo di essere e di fare, impegnandomi al centodieci per cento ogni giorno per migliorarla. Non guardiamo sempre indietro, allarghiamo i nostri orizzonti al futuro.

Secondo molti, vincerà se saprà tenere unita tutta la classe medica…l’Azienda universitaria ospedaliera della Cittadella dei Riuniti vivrà grosse sfide. Come intende governarle?

Non mi piace l’idea di una classe medica distinta dal resto della Comunità Accademica. I Dipartimenti di Area Medica sono una componente importante dell’Ateneo, ma non l’unica. Il Rettore deve esserlo di tutti: non è l’esponente di una forza politica, di un partito o di un sindacato. Per questo ritengo che i rapporti con l’Azienda Ospedaliero – Universitaria “Ospedali Riuniti”, già ottimi, vadano rafforzati attraverso il confronto quotidiano tra le due governance, la commissione paritetica Università – Azienda e la stretta collaborazione con la Facoltà di Medicina, il Preside e il Delegato alla Sanità. Inoltre è fondamentale recuperare il rapporto con le strutture sanitarie del territorio provinciale e in quelli limitrofi, a partire da Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, la ASL della BAT, il CROB di Rionero in Vulture ecc. A mio avviso, l’Università deve dare un contributo decisivo alla qualità dell’assistenza sanitaria e la sua missione fondamentale deve essere quella di formare medici, professionisti della salute e specialisti in grado di soddisfare i fabbisogni del servizio sanitario regionale ma, soprattutto, delle persone che hanno bisogno di cure. Si tratta, forse, di una visione un po’ romantica della professione medica, quella che pone al centro della cura il malato e non la malattia, ma mi permetta di credere ancora che questa è la vera sfida del medico.

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