Michelangelo Antonioni, il cinema di carta

by Orio Caldiron

Se tra un film e l’altro c’è stato quasi sempre l’intervallo di uno o due anni, la forzata inattività tra Professione: reporter e Identificazione di una donna, tra il ’74 e l’82, ha rappresentato  l’interruzione più lunga e frustrante , vissuta come una sorta di esilio da un autore come Michelangelo Antonioni – nato a Ferrara il 29 settembre 1912, muore a Roma il 30 luglio 2007 – per il quale fare un film è un fatto profondamente esistenziale.

“La mia storia personale non s’interrompe durante la ripresa di un film , anzi è allora che diventa più intensa” era solito dire. “ Quando il film è finito, rimane sempre una violenza inespressa che ci spinge a riprendere il pellegrinaggio, da un luogo all’altro, per vedere, interrogare, fantasticare su cose sempre più sfuggenti, in vista di un prossimo film”.

La lontananza dal set è più angosciosa e sconcertante anche per il successo di Professione, che lo stesso protagonista, un inedito Jack Nicholson, ritiene la sua interpretazione migliore tanto da assicurarsene subito i diritti, mentre la critica lo applaude come il punto più alto dell’avventura cinematografica del regista che è per tanti versi l’avventura  dello sguardo senza fine dio chi ha la morte negli occhi.

IL PASSATO DEL CRITICO

Sono gli anni in cui, incapace di restare inattivo, scopre la pittura dando vita ai primi pannelli di Le montagne incantate, che sono in realtà ingrandimenti fotografici di originali pittorici di piccole dimensioni. Sono soprattutto gli anni in cui riprende a scrivere. Si dice riprende perché prima di avviare il suo lungo sodalizio  con la macchina da presa il regista ferrarese è stato critico cinematografico  del “Corriere Padano”, il quotidiano della sua città, e all’inizio degli anni quaranta redattore di “Cinema”, la rivista in cui la sua firma appare accanto a quella di Luchino Visconti, Cesare Zavattini, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani che alla fine della guerra daranno vita al nuovo cinema italiano.

Se è impossibile rendere conto dell’atipica eccezionalità di un critico attento più degli altri alle risorse e ai rischi della tecnica (il colore, il suono, il doppiaggio) e insieme aperto alla letteratura, alla filosofia, alla pittura – le sue recensioni di film così diversi come Ombre rosse e La terra trema sono straordinarie, come il saggio su Marcel Carné che frequenta nel ’42 come aiuto regista di L’amore e il diavolo – non si può dimenticare che nello stesso periodo accanto ai saggi appaiono anche racconti e ritratti, quasi a sottolineare la costante predisposizione alla scrittura.

LA FORTE VISIONARIETÀ

Ma quando tra la seconda metà degli anni settanta e l’inizio degli ottanta scrive racconti, appunti, frammenti, haiku, osservazioni sul “Corriere della Sera”, qualcosa è cambiato. Si tratta ora di spunti, abbozzi, illuminazioni che ci consentono di entrare nel laboratorio di idee e di immagini di un maestro del cinema, di sbirciare nel suo taccuino dei film da fare. I brevi testi vengono raccolti in Quel bowling sul Tevere, che esce nel 1983 da Einaudi, e ci si accorge ancora meglio del loro carattere di cinema di carta.

La forte visualità, il sapore del progetto in fieri, il gusto della provocazione, la voglia di mettersi in gioco come autore che, anche quando non riesce a definire un vero e proprio soggetto, non smette di cercare, di osservare, di esercitare il privilegio inestinguibile dello sguardo al lavoro.

Non si potrebbe dirlo meglio di Wim Wenders, che si considera da sempre suo allievo: “Sono stato colpito da come i vari testi siano stati scritti da un punto di vista unico. Nessun poeta, romanziere, fotografo, pittore o giornalista avrebbe potuto raggiungere un simile risultato. Solo una mente abituata a pensare in modo cinematografico può esprimersi con un linguaggio così essenziale, nitido, preciso, poetico, fotografico, visivo. Talvolta da una sola riga emergono interi film, non solo le immagini, ma anche i sentimenti e le emozioni che li avrebbero accompagnati se mai fossero stati realizzati”.

Se Una mattina e una sera (“Proviamo a pensare a un film che racconti due giorni della vita di un uomo. Quello in cui nasce e quello in cui muore. Proviamo a pensare a un film che abbia una mattina e una sera, ma non l’affanno del tempo che c’è in mezzo”) sembra alludere al  pedinamento neorealistico per capovolgerne ironicamente il significato, Chi è il terzo? prende il via dal verso di Eliot “Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto? “per confermare la profonda suggestione della poesia, la tentazione a cui  rimanda un autore che ha appena finito un film riesce soltanto a pensarne un altro:” Non mi dà pace quel terzo che ti cammina sempre accanto”.

Il pretesto che accende l’interesse può nascere da un fatto di cronaca, come avviene in  Hanno ammazzato uno: “Hanno ammazzato uno a Ferrara facendolo precipitare con l’auto nel Po di Volano. D’inverno, con la nebbia che sfuma nel paesaggio. L’auto è rimasta tutta la notte sott’acqua con i fari accesi”. L’avvenimento è insufficiente, qualcos’altro deve accadere nel corso della notte alla luce di quei fari sott’acqua. Lo stimolo di una simile immagine di partenza basta tuttavia a risvegliare la curiosità , a mettere in moto il racconto.

COME NASCE UN SOGGETTO?

Quando nel ’64 appaiono da Einaudi le sceneggiature di Sei film, da Le amiche a Deserto rosso nella prefazione, annunciata in un illuminante scambio di lettere con Italo Calvino, accenna alle decine di proposte che nel corso degli anni non sono andate in porto ricordando con amarezza tutto il tempo perso nelle anticamere dei produttori, e poi a raccontare storie, a scrivere pagine e pagine inutili.

Sembra deciso a prendersi la rivincita sostenendo che le cose più singolari possono suggerire un film, come quei versi che per anni ha in testa (“Pensate un numero, raddoppiatelo, triplicatelo, elevatelo al quadrato. E cancellatelo”) e potrebbero diventare il nucleo di un curioso film umoristico. Naturalmente è un gioco, un divertissement  forse a spese dei critici che invece di puntare sull’immagine  e sulle sue strategie, gli chiedono notizie dell’incomunicabilità.

Come è un gioco l’idea che gli è venuta in un momento di disperazione di sceneggiare i primi capitoli dell’Introduzione alla filosofia matematica di Bertrand Russel, libro serissimo, ma ricco secondo lui di singolari spunti comici: “Il numero tre è qualcosa che tutti i terzetti hanno in comune”. Dove al terzetto sembra riservata una parte già colorata di ridicolo. “La relazione moglie-marito dicessi inversa a quella marito-moglie”. Sembra di vederle già, queste due coppie inverse  e amiche e le occasioni in cui potrebbero essere coinvolte.

ALL’INTERNO DELLA COPPIA

Nell’orizzonte dei sentimenti, il diagramma dei rapporti all’interno della coppia ispira parecchie pagine, anch’esse incompiute ma sintomatiche. Se la situazione di sfascio, dissimulata per anni, viene finalmente a galla, cosa succede quando cominciamo a essere sinceri? Il silenzio è ancora una volta una provocazione sul filo del paradosso: “Storie di due coniugi che non hanno più niente da dirsi. Registrare una volta tanto non i loro dialoghi ma i loro silenzi, le loro parole silenziose. Il silenzio come dimostrazione negativa della parola”.

Sulla nota della sorpresa, della sorridente naturalezza dei rapporti anche brevi è giocato invece Tre giorni: “Ricordo il prato verde, la casa rossiccia, il pavimento di mattoni cotti dal sole in mezzo all’erba. Anche la ragazza era piena di sole. Un sole nordico come lei. Non l’avevo mai vista prima, mi sorrideva con molta naturalezza e anch’io le sorridevo ma smisi subito per chiederle se voleva venire a vivere con me. Durò tre giorni. E furono tre giorni di profondo stupore”.

Il problema del finale è il tratto distintivo di Tanto per stare insieme: “Un uomo e una donna in un ristorante sul mare. Non hanno neanche bisogno di dirsi certe cose. Ecco che devono muoversi, riprendere il viaggio. Fuori adesso piove. La donna poggia la fronte sul tetto bagnato dell’auto. Quando rialza il viso l’uomo si accorge che piange. O ride e piange insieme. Le loro storie vengono fuori anche a non dirle. Sono un uomo e una donna inutilmente fatti uno per l’altra”. Non dovrebbe essere solo l’inizio di un film, ma tutto il film, se si riesce  a concentrare la vicenda nell’ora e mezza che dura il pranzo. Se pensate che manchi il finale, chiedetevi piuttosto, suggerisce Antonioni, se è giusto dare sempre un finale al racconto: “ Una volta chiusa in un suo alveo una storia rischia di morirvi dentro, se non le si dà un’altra dimensione, se non si lascia che il suo tempo si prolunghi in quello esterno dove siamo noi, protagonisti di tutte le storie. Dove non c’è niente di concluso”.

IL PROGETTO DI LA CIURMA

Non è difficile riconoscere nei progetti, (anche in quelli più inconsistenti?) il percorso dei suoi film più importanti da Cronaca di un amore a L’avventura, da Il grido a Blow up, nei quali, come ha detto Roland Barthes in una celebre lettera, la strada del senso resta sempre aperta, fedele al mandato dell’artista del nostro tempo in cerca di quella traccia profonda di senso che si chiama destino. Se ne trova un’altra conferma in La ciurma, uno dei progetti più complessi che tra la fine dei Settanta e la metà degli Ottanta è sempre stato sul punto di essere realizzato con attori importanti e location in Florida o nel Messico.

Il soggetto nasce da un avvenimento riportato dai giornali nel 1969, in cui tre uomini sfiniti dalla fatica, dalla fame e dalla sete, arrivano in un porto australiano, dopo essere stati alla deriva per sei giorni in un panfilo a motore senza acqua e senza viveri. Spinti dal vento in alto mare si erano infilati in una tempesta. Secondo il loro racconto, quando le acque si calmano riescono a aprire il boccaporto.

Nel vano della botola c’è i padrone dello yacht che, minacciandoli con una spranga di ferro, li ricaccia indietro e richiude il portello. Qualche ora dopo riescono a scardinare il boccaporto, risalgono sul ponte ma non c’è più nessuno, l’uomo è scomparso. Solo più tardi i naufraghi si riprendono e raccontano che erano stati ingaggiati per una crociera di dieci ore dal proprietario del panfilo, un ricco uomo d’affari cinquantenne di Sidney, che, colpito da improvvisa follia, si era poi gettato in mare. Ma Antonioni non crede a questa interpretazione  degli avvenimenti.

Affascinato dalla storia la lascia fermentare dentro di sé per anni e arriva all’idea del film tentato dall’aria contadina dell’avventura, dal mare aperto, dai personaggi abbrutiti o intristiti ma con un senso ancora forte della vita. Scrive ai giornali, chiede informazioni a un amico australiano, fa indagini più da detective che da sceneggiatore, fino a che riceve una fotografia dei tre superstiti su cui comincia a formulare le prime ipotesi.

L’IMMAGINE SOTTO L’IMMAGINE

Il proprietario in realtà non si è buttato in mare, ma solo quando era troppo tardi si accorge di quali pericolosi mascalzoni sono i tre strani marinai che ha imbarcato. Si nasconde a bordo, lasciandoli padroni del panfilo fino all’arrivo nel porto.

“ È il tramonto, una luce debole e ambigua tocca distrattamente un porto che non conosce. Un porto appartato e sordido. Guardando questo paesaggio estraneo, a un tratto gli sembra di capire una cosa. Nella vita lui ha dato troppo peso a tutto. Invece di prendere la vita con un sorriso di scherno, è sempre stato maledettamente serio. Solo adesso, guardando la piccola folla di curiosi raccolta sul molo attorno ai tre superstiti, osservandoli mentre si godono questo momento di gloria sicuramente unico nella loro vita, solo adesso gli viene finalmente quel sorriso di scherno e farà di tutto per conservarlo”.

Il mistero rimane? Se si va a caccia di immagini bisogna forse aspettarselo. “Noi sappiamo”, ha scritto più volte il regista, “ che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà , e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà”.                                                                                                                                                              

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.