Il puzzle di Italo Calvino

by Orio Caldiron

Quando oggi entriamo in sala prima dell’inizio, come non pensare all’epoca barbarica in cui lo si faceva a film incominciato, stravolgendo il filo della storia, trasformandola in un puzzle da ricomporre pezzo a pezzo, anticipando senza saperlo le più sofisticate tecniche narratologiche? Italo Calvino, nell’Autobiografia di uno spettatore, rievoca il tempo in cui da adolescente  ricostruiva le trame smozzicate dei film che vedeva a Sanremo. Su e giù per i marciapiedi delle vie principali della città, con gli amici ripassa davanti alla sala da cui è appena uscito e sente dalla cabina di proiezione le battute del doppiaggio che lo riportano dentro alla storia, irresistibili come il canto delle sirene: “Quei film mi divertivo a vederli, e mi divertivo ancora di più a rifletterci sopra, a smontarli, a demolirli, a sceverare il vero dal falso, perché anche quelli brutti erano interessanti e istruttivi”.

La scoperta del cinema coincide con la stagione tra i tredici e i diciott’anni in cui il futuro scrittore si immerge nella sala buia, piena di gente che sbuffa, sghignazza, succhia caramelle, mentre una nuvola di fumo aleggia sulle teste degli spettatori. Sono gli anni che vanno dal ’35, dai Lancieri del Bengala di Henry Hathaway con Gary Cooper e Franchot Tone e La tragedia del Bounty di Frank Lloyd con Charles Laughton e Clark Gable, fino alla morte di Jean Harlow nel 1937, e in mezzo la serie dell’ Uomo Ombra con William Powell e Myrna Loy e il cane Astra, i musical di Fred Astaire/Ginger Rogers, i gialli di Charlie Chan e gli horror di Boris Karloff.

NELLE RISAIE DI VENERIA

Nel dopoguerra, negli anni dell’impegno quando non ci aveva ancora messo una pietra sopra, il cinema non è al centro degli interessi del giovane scrittore, anche se il giornalista se ne occupa volentieri. Sull’ “Unità” del 14 luglio 1948 l’incursione sul set di Riso amaro, nella tenuta di Veneria della famiglia Agnelli è irresistibile. Sembra che Raf Vallone e Vittorio Gassman, i due antagonisti, se le siano date davvero, altro che finzione del cinema. Silvana Mangano è la più bella ragazza che abbia mai visto, con il viso e i capelli della Venere di Botticelli. L’americana Doris Dowling – la sorella Constance è il grande amore sfortunato di Pavese, verrà la morte e avrà i tuoi occhi – combatte con le zanzare che flagellano la troupe a mollo negli acquitrini. Negli anni cinquanta – nei suoi interventi su “Cinema Nuovo” – si schiera con il pubblico, vorrebbe che ci fossero più film popolari, più film medi come quelli di Luigi Zampa, Pietro Germi, Steno e Mario Monicelli, i suoi preferiti. Se nel ’54 a Venezia trascura La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock, in cui vede soltanto la storia del reporter alle prese col marito che fa a pezzi la moglie come capitava nelle vignette di Pio Percopo, il cronista sfortunato del giornale a fumetti che leggeva da bambino, quando nell’ 81 ritorna al Lido come presidente di giuria, assegna il Leone d’oro a Anni di piombo, premiando la qualità artistica di un film bellissimo, ma insieme la sua capacità di mettersi senza esitazioni dalla parte dell’individuo. Anche se avrebbe preferito che fosse diviso tra il film di Margarethe von Trotta e Sogni d’oro (19819 di Nanni Moretti, per confermare ancora una volta che l’humour intelligente è un’altra via seria, altrettanto seria, di arrivare alla verità. Solo pochi anni prima era stato da applauso il suo ultimo saluto a Groucho Marx, straordinaria incarnazione della “superiore dignità di chi si presenta per quello che è, dell’innocenza di chi gioca a carte scoperte, del disinteresse di chi sa che tutte le vincite si risolvono in fumo”.

ITALO E ELISA

L’attività del critico, anche per quanto riguarda il cinema, s’incontra a più riprese con le incombenze del redattore della Einaudi che negli uffici torinesi di via Po si dedica ai libri degli altri. Se è a Cesare Zavattini che chiede per primo di pubblicare le sceneggiature dei suoi film più celebri, ottenendone un clamoroso rifiuto, è poi con Michelangelo Antonioni che nel ‘64 riesce a varare Sei film, che da Le amiche (1955) a Deserto rosso (1964) attraversa la grande stagione del cinema moderno. Nelle lettere vengono fuori i retroscena redazionali che rivelano la presenza in casa editrice di due contrapposti schieramenti, gli antonioniani e gli anti-antonioniani, entrambi perplessi davanti alla pubblicazione di sceneggiature di film che si reggono soprattutto sull’immagine e non sulla parola. Occorre dire della tempestosa reazione del maestro ferrarese? Nella raccolta mondadoriana delle lettere non ci sono quelle di Elsa De Giorgi che aveva incontrato nel 1955 in occasione dell’uscita di I coetanei nei Gettoni. Se ne ritrovano molte, e talora rivelatrici, in Ho visto partire il tuo treno, il memoir che la bellissima attrice ha dedicato nel ’92 alla loro storia, quasi un’immersione del giovane Calvino – alle prese con Il barone rampante e poi con Il cavaliere inesistente e le prime Cosmicomiche – nei salotti romani, in un singolare gioco di specchi tra privato e pubblico, mondanità e timidezza, cinema e letteratura. Con la spudoratezza della biografia non autorizzata e la predilezione per i toni sopra le righe, il libro coglie Italo al di là dello specchio mentre sta scrivendo il saggio sul Dottor Živago, aggrotta la ruga sulla fronte standosene in un angolo durante una festa di compleanno, balbetta un complimento a Anna Magnani, che perfida confiderà all’amica: “Se strafoga dentro la sua intelligenza, ha paura di perdene un grammo, se l’amministra come ’n ragioniere, pesa le parole col sospetto che qualcuno scopra che non è grande come scrive. È una siringhetta de veleno”.

SULLE TRACCE DI MARCO POLO

Il rapporto tra cinema e narrativa rispunta curiosamente vent’anni dopo quando nel 1960 Monicelli propone a Cristaldi di ripercorrere la rotta di Marco Polo da Venezia a Pechino, passando per lo stesso itinerario e vedendo cosa è rimasto e cosa è cambiato. Quale narratore italiano potrebbe mettere insieme la traccia di un film così difficile, sospeso tra documento e affabulazione? Chiediamolo a Calvino, suggerisce Suso Cecchi d’Amico. Qualche settimana dopo lo scrittore consegna un centinaio di pagine straordinarie come arazzi persiani che testimoniano il suo coinvolgimento nel progetto di un film da fare che, come capita spesso nel mondo del cinema, non si farà. Il testo è bellissimo. Comincia e finisce con il rientro a Venezia dei Polo a cui nessuno crede, mentre Marco gesticola, racconta, insiste. Sfilano in mezzo i mesi di navigazione in alto mare, l’arrivo a Baghdad  che si apre su un mondo di sogni, la carovana che avanza nel deserto, l’incontro con il vecchio della montagna e via via fino al lungo soggiorno alla corte del Gran Kan. Come non pensare a quello che saranno più tardi Le città invisibili? Scritte e riscritte, asciugate, quintessenziate, le avventure di Marco Polo, l’ambasciatore prediletto dall’imperatore dei Tartari, perdono per strada l’estro picaresco della grande avventura per diventare la mappa delle città che il veneziano ha visitato e rievoca al Kublai Kan, undici città che finiscono con l’essere cinquantacinque perché ognuna torna in scena cinque volte attraverso altrettanti sopralluoghi. No, non stiamo dando i numeri. Il punto di partenza è la città della memoria, che rimanda all’infanzia e al passato, per finire con la città nascosta, e cioè l’archetipo della città futura, dove c’è posto per la morte e la speranza. La logica simbolica e combinatoria che s’intravede in tante opere dello scrittore è la griglia segreta anche di questa, nata nel segno di Claude Lévi-Strauss e di Jorge Luis Borges.

CINEMA E LETTERATURA

Se Calvino sempre più raramente si lascia catturare dallo schermo, è il cinema a subire il fascino della sua scrittura visiva. Non ha niente contro il plagio – rende meno del coinvolgimento diretto ma è più lusinghiero – e non batte ciglio di fronte a I soliti ignoti (1958) di Monicelli e Palookaville (1995) di Taylor, che senza dirlo si rifanno a Furto in pasticceria e a un paio di altri racconti. Il più divertente dei corti tratti da Gli amori difficili è L’avventura di un soldato (1963), con un grande Nino Manfredi e una carnale Fulvia Franco, mentre sono altrettante occasioni mancate Il cavaliere inesistente (1969), il cartone animato con attori di Pino Zac, e il televisivo Marcovaldo (1970) di Giuseppe Bennati con uno stralunato Nanny Loy. Il documentario L’isola di Calvino (2006) di Roberto Giannelli sembra chiudere il cerchio rievocando i primi quarant’anni di vita, dalla casa natia di Santiago de las Vegas presso L’Avana alla Sanremo dell’infanzia e dell’adolescenza, dalla Torino degli inizi einaudiani al lungo soggiorno parigino fino al ritorno in Italia nell’ abitazione romana di Campo Marzio affacciata sul Pantheon. Se sono sfuggenti i ricordi della Stazione Sperimentale e del giardino Chapora di Cuba, vi ritorna solo nel ’64 dopo il matrimonio con Chichita, l’esperienza di Villa La Meridiana a Sanremo, dove i genitori proseguono il loro lavoro di agronomi, è fondamentale. Qui il padre percorre tutte le mattine la strada in salita di San Giovanni da cui domina l’intero panorama. Il piccolo Italo guarda da lassù la città brulicante di vita, gli sembra quasi lo “spiraglio di tutte le città possibili”, mentre prova la vertigine di vedere il mondo dall’alto, quella che Renzo Piano, uno dei suoi amici più vicini e solidali, chiama la “percezione uccellina della realtà”. Forse il contrassegno araldico della sua attività creativa.

NOTIZIE BIOGRAFICHE

Italo Calvino nasce il 15 ottobre 1923 a Santiago de las Vegas, presso L’Avana, e muore nella notte tra 18 e il 19 settembre 1985 all’ospedale Santa Maria della Scala di Siena, dopo aver lavorato durante l’estate alle lezioni per Harvard. Avventura di uno spettatore (1974), il pezzo su Riso amaro del ’48, il soggetto-trattamento di Marco Polo (1960), Il sigaro di Groucho (1977), Diario di uno scrittore in giuria (1981), le lettere di Zavattini, Antonioni, Suso Cecchi d’Amico si trovano in Italo Calvino, Romanzi e racconti, Saggi 1945-1985, Lettere 1940-1995, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, i Meridiani pubblicati da Mondadori dal 1991 al 2000. Sono di grande interesse gli interventi critici e le testimonianze raccolte in L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, a cura di Lorenzo Pellizzari, Bergamo, Lubrina, 1990; e in Vito Santoro, Calvino e il cinema, Roma, Quodlibet, 2011. 

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