2019, un anno di cinema. Top 10: tutti i film che resteranno nel tempo

by Nicola Signorile

2019. Un anno in cui i grandi vecchi del cinema mondiale hanno calato i propri assi. Gli ultimi? Chissà, speriamo di no. Un anno in cui Quentin Tarantino potrebbe aver sparato la penultima, meravigliosa, cartuccia. Un anno in cui un grande regista coreano come Bong Joon-Ho ha urlato forte il proprio immenso talento. Un anno in cui molti film hanno messo in crisi le rigide separazioni tra generi.

Un anno di cinema politico, in cui grandi autori hanno affrontato temi importanti, coniugando rigore formale e lucidità di sguardo. Il 2019 è stato un anno ricco di buon cinema, con meno Hollywood e più resto del mondo rispetto al passato. Dieci film usciti quest’anno (considerando la data di uscita italiana), che resteranno nel tempo. Dieci film da recuperare se non li avete già visti in sala, senza alcuna pretesa di esaustività o di oggettività. Niente classifica però: se sono in lista, sono tutti da guardare.

Peterloo di Mike Leigh – Uscito quasi in sordina in Italia, l’ultimo film di Mike Leigh (Segreti e bugie, Turner)  è una lezione pittorica  sulla settima arte che si fa affresco storico e sociale. Una ricostruzione a dir poco minuziosa degli eventi che precedettero e seguirono il massacro di Peterloo del 16 agosto 1819, quando più di sessantamila persone si riunirono pacificamente in St Peter’s Field, a Manchester, per protestare e chiedere il voto. Una popolazione stremata dalla fame e dalla tassa sull’importazione del grano chiede diritti che gli spetterebbero. Il governo reagisce difendendo i propri privilegi. La manifestazione viene repressa nel sangue dalla cavalleria inglese. Leigh ne fa un allegoria sull’indifferenza del potere, sulla forza della retorica e sui danni che può provocare quando utilizzata in modo strumentale. Pochi volti noti, a parte Rory Kinnear nel ruolo dell’attivista e oratore Henry Hunt.

Il Traditore di Marco Bellocchio – Il grande ritorno di Marco Bellocchio, purtroppo non considerato dall’Academy per la cinquina che concorrerà all’Oscar al miglior film straniero. La storia del pentito di mafia Tommaso Buscetta narrata dal regista di Buongiorno,  Notte è potente, emozionante. Mette insieme la grande tradizione del cinema civile italiano, il teatro, il gangster movie, momenti di introspezione e inedite accelerazioni action, malinconia e senso dell’epica, come solo i grandi affreschi di mafia sanno fare. Il Maxiprocesso con il suo teatro dell’assurdo è il cuore di un’opera che racconta una vicenda che tutti conosciamo senza cedere al piatto realismo o a una messinscena da fiction tv. Nei panni di don Masino, un Pierfrancesco Favino memorabile, a suo agio tra siciliano stretto, portoghese, italiano e inglese, circondato da un coro di attori siciliani di grande livello, su tutti Fabrizio Ferracane (Pippo Calò) e Luigi Lo Cascio (Totuccio Contorno).

Noi di Jordan Peele – Il tanto bistrattato horror negli ultimi anni ci ha regalato due perle nate dalla penna dell’attore e comico americano Jordan Peele. Due anni fa, la folgorazione con Scappa-Get Out; nel 2019, la deflagrazione con Noi (Us), un film sul doppio e sulle opposizioni, delle quali è pieno il racconto in ogni suo dettaglio. Una pellicola complessa e piena d’ironia, ambiziosa e stratificata. Meno immediata di Scappa, ma col tempo sempre più convincente e sorprendente. La vacanza a Santa Cruz dei Wilson, giovane famiglia afroamericana dominata dal carisma della madre Adelaide, interpretata dalla folgorante Lupita Nyong’o, viene rovinata dall’arrivo di quattro persone esattamente uguali ai componenti della famiglia, i loro doppioni malvagi e sanguinari. Conviene fermarsi a questo punto con il racconto di una trama che riserva continue sorprese, anche se la grandezza del film sta nei suoi tanti livelli di lettura. Con Noi si torna all’horror politico, portato in auge da George Romero negli anni ’70: c’è il femminismo e la questione razziale, la differenza tra classi imperante nella società occidentale e l’esasperato individualismo dell’America di oggi, alla quale Jordan Peele rivolge il suo divertito dito medio.

C’era una volta…a Hollywood di Quentin Tarantino – QT fa i conti con se stesso. Con la conclusione annunciata del suo memorabile operare nella settima arte. Ha dichiarato che si sarebbe fermato al decimo film, con Once Upon a Time in…Hollywood siamo a nove. Rick Dalton è un attore diventato famoso per un ruolo in una serie televisiva western. La sua carriera sembra sempre sul punto di decollare, ma la Mecca del cinema nel 1969 sta cambiando profondamente. Tramontano stelle e generi che l’hanno resa grande. Arrivano nuovi giovani autori come Roman Polanski che si è appena trasferito con la compagna Sharon Tate (Margot Robbie) nella casa accanto a quella di Dalton. I vagabondaggi dell’attore e della sua inseparabile controfigura Cliff Booth incappano nella dannata family di Charles Manson, una collisione che avrà un epilogo selvaggio e catartico nella notte che cambiò per sempre l’America e lo showbiz. Riscrive le leggi della storia e del grande schermo Quentin Tarantino, stavolta più meditativo e intimo, senza le impennate che abbiamo imparato a conoscere. Si diverte a citare sin dal titolo Sergio Leone e  Sergio Corbucci, lo spaghetti western, i polizieschi televisivi americani e i western di serie B: C’era una volta è un’amorevole ode al cinema, a quello che più ama e ha amato QT, il quale guarda con sguardo tenero, malinconico ai suoi antieroi, perfettamente incarnati dai divi Leonardo Di Caprio e Brad Pitt, non rinunciando ancora una volta alla vendetta come granguignolesca occasione di riscatto.

Parasite di Bong Joon-Ho – Per molti il miglior film dell’anno. Di certo, un grande film di un grande regista, Bong Joon-Ho in costante ascesa, da The Host a Snowpiercer, passando per Madre. Ancora una volta una famiglia protagonista, ancora una volta un film profondamente politico. Anzi, sono due le famiglie al centro di Parasite, una poverissima, l’altra ricchissima. Una vive in un sottoscala, l’altra in una villa da sogno progettata da una archistar. Kim riesce a trovare lavoro nella casa come insegnante privato d’inglese della figlia della coppia ricca. Con vari stratagemmi, l’intera famiglia si trasferirà nella grande casa, dando il via ad un perfetto meccanismo a orologeria che tiene lo spettatore con il fiato sospeso fino in fondo. Una paralizzante disamina delle diseguaglianze sociali ed economiche nella Sud Corea contemporanea, specchio dei divari esistenti in ogni società odierna. Parasite è divertente e dissacrante, carnale e algido al tempo stesso, con continui cambi di registro dalla commedia al dramma, dal mistery all’horror. Visivamente impeccabile, intriso di humour nero, Parasite sarà il prossimo vincitore dell’Oscar al miglior film straniero. E forse anche qualcosa di più!

Joker di Todd Phillips – A proposito di ingiustizia sociale, ecco Arthur Fleck e la sua risata disturbante, un singulto lacerante che puzza di umiliazione e di delirio. Joachim Phoenix novello traxi driver giganteggia nella pellicola che più di ogni altra ha colpito l’immaginario collettivo globale: Joker è un efficace attacco alle certezze borghesi, che ha trionfato al festival di Venezia e al botteghino. Phillips prende in prestito l’universo Dc Comics per sparare in faccia al pubblico una realtà crudele, predatoria, dove tutti sono pronti a calpestare gli altri, a mentire, ingannare, a prendersi gioco di chi non ha nulla. Gli ultimi sono sempre più ultimi e Arthur si trasforma nella maschera sfigurata pronta a terrorizzare la decadente Gotham City, dopo averla stregata nell’incendiario finale del film. In una continua maxicitazione scorsesiana, Robert De Niro è l’agnello sacrificale sull’altare del Joker nascente che non può che fare la sua prima apparizione in uno show televisivo, palcoscenico in cui vengono sublimate le nostre miserie quotidiane. Phoenix pesca nei recessi più oscuri del proprio (e del nostro) essere per dare corpo e anima al personaggio, nuovo capitolo nella carriera di uno dei migliori attori del cinema contemporaneo.

The Irishman di Martin Scorsese –  Monumentale, elegiaco, fluviale. Sono tanti i motivi per amare l’ultima opera del regista di Casinò e Quei bravi ragazzi, prodotta da Netflix. Prima di tutto, per rivedere all’opera Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci, per la prima volta insieme sul grande schermo. Non è il miglior film di Scorsese, ma è il film del commiato al suo mondo, a un modo di fare cinema che ha rivoluzionato Hollywood. Più di 200 minuti di epopea gangster che, prendendosi i suoi tempi, abbandona la frenesia dei tempi degli Henry Hill e degli Asso Rothstein.  I movimenti di macchina sono ampi e di estrema eleganza, ma stavolta il ritmo è più disteso, meno infernale rispetto ai  precedenti (o al recente The wolf of Wall Street), è più interessato a far emergere le relazioni intime tra i personaggi. La storia del sicario irlandese Frank Sheeran incrocia i principali avvenimenti della storia americana degli anni ‘60 e ‘70, visti dal punto di vista di Cosa Nostra. Pacino è il potente sindacalista Jimmy Hoffa, Pesci è il boss Russ Bufalino. Un profondo manuale sull’essere umano e sulla colpa firmato Martin Scorsese.

Il Corriere – The Mule di Clint Eastwood – L’ultimo erede del classico cinema hollywoodiano, grazie a un articolo del New York Times, scova una storia incredibilmente vera: quella di Earl Stone, veterano della guerra di Corea che ha dedicato la vita alla floricoltura, una passione che lo ha allontanato dalla famiglia. La crisi economica è implacabile e a Stone, interpretato dallo stesso Eastwood, resta solo il pickup con cui ha attraversato in lungo e in largo gli States senza mai subire una contravvenzione. Per raccattare qualche dollaro diventerà un mulo, trasporterà carichi di droga per il cartello di Sinaloa. Nessuno, tantomeno l’Fbi, sospetterà di un vecchietto alla guida di un pickup. A 88 anni suonati Clint Eastwood regala un’altra lezione di cinema solido, libertario, coraggioso. Se ne frega del politically correct, il suo Earl è un americano medio misogino, un po’ razzista, che parla come mangia, spiazzando persino il gruppo di narcos messicani con cui entra in contatto. Il Corriere è un on the road su un’America al tramonto, fiaccata dalla deindustrializzazione e dall’avidità, assediata dai pregiudizi razziali. Con il suo stile asciutto, Eastwood, dona verità a rapporti famigliari ormai sfibrati da anni di distanze e incomprensioni. Perché, in fondo, Earl vuole solo fare qualcosa di buono prima del definitivo commiato. Lunga vita all’instancabile regista: a gennaio  sarà in sala il suo 38esimo  film Richard Jewell.

La vita invisibile di Eurídice Gusmão di Karim Aïnouz – Uno dei grandi film del 2019 arriva dal Brasile. Uno struggente racconto d’amore tra due sorelle, tratto dal romanzo Eurídice Gusmão che sognava la rivoluzione di Martha Batalha. Un mélo avvolgente che travalica l’opera letteraria originaria, sospinto dalla emozionante sorellanza tra la ubbidiente Euridice e la ribelle Guida. Le due ragazze crescono nella Rio De Janeiro degli anni ’50 sotto il severo giogo del padre padrone. Guida frequenta un uomo, esce spesso la sera di nascosto, coperta da Euridice. Una di quelle sere però scompare: ha seguito un uomo all’estero dove si è sposata e ha avuto un figlio. Al suo ritorno, il padre non vorrà più saperne di lei. Le vite delle due sorelle scorreranno parallelamente: l’una seguirà la “retta via” dettatale dal padre, l’altra vivrà di espedienti con un bambino da crescere senza l’aiuto di nessuno. Un amore a distanza raccontato magistralmente da Ainouz, con due personaggi finemente cesellati in ogni sottigliezza psicologica, grazie alle interpretazioni di due bravissime attrici, Carol Duarte e Julia Stockler. La vita invisibile è cinema d’altri tempi, raffinato e pieno di fascino, difficile resistergli. E se scappa qualche lacrima, è assolutamente ben spesa.

L’ufficiale e la spia di Roman Polanski – Il film giusto al momento giusto. Roman Polanski si mostra molto a proprio agio nel parlare di fake news e di  gogna mediatica ante litteram. Sceglie di farlo attraverso l’affaire Dreyfus, un clamoroso caso di ingiustizia e antisemitismo che scosse dalle fondamenta la Francia di fine Ottocento. Alfred Dreyfus (Louis Garrel) è un capitano ebreo, accusato di essere stato un informatore dei nemici tedeschi. Viene condannato ingiustamente all’esilio sull’isola del Diavolo. Ma J’accuse, titolo originale dell’opera tratta dall’omonimo romanzo di Robert Harris, sceglie il punto di vista del tenente Georges Picquart, appena arrivato ai vertici del controspionaggio militare. Un uomo capace di andare oltre la propria diffidenza verso gli ebrei, smantellando pezzo dopo pezzo la grande falsificazione messa in piedi dai suoi superiori. In una lotta senza quartiere per portare a galla la verità, osteggiata in ogni modo da politici e militari, ritroviamo un grande Jean Dujardin, l’indomito Picquart, Emmanuelle Seigner è l’amata Pauline, Luca Barbareschi, tra i produttori del film, suo marito. Un’opera classica, solida, che sfoggia una ricostruzione storica particolareggiata e credibile. Un saggio sul potere e sulle sue macchinazioni, sul conformismo paralizzante della società ottocentesca, incredibilmente somigliante a quella odierna. Un articolo di giornale, il famoso J’accuse di un intellettuale, lo scrittore Émile Zola può mettere in crisi un paese, potrebbe succedere anche oggi?

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