Doris Day, dalle commedie sentimentali ad Hitchcock

by Orio Caldiron

Anche senza dar retta ai pettegolezzi che circolano sul Sofà del Produttore, come includere la verginità tra le doti fondamentali delle attrici? L’eccezione alla regola si chiama Doris Day, almeno se dobbiamo credere alla battuta di Groucho Marx: “Sono sulla breccia da tanto di quel tempo che ho conosciuto Doris Day prima che diventasse vergine”. Figlia di genitori cattolici di origine tedesca – Doris Mary Anne von Kappelhoff nasce a Cincinnati, Ohio, il 3 aprile 1922 e muore a Carmel-by-the-sea, California, il 13 maggio 2019 – è già nota come cantante sin da “Sentimental Journey”, il suo primo hit dell’inizio 1945, sintonizzato sul desiderio di ritornare a casa delle truppe americane dopo le lunghe trasferte della seconda guerra mondiale.

L’affermazione discografica e radiofonica, spesso al fianco di Frank Sinatra e di Bop Hope, la fa arrivare al cinema dove nel giro di pochi anni diventa la star del musical targato Warner Bros., da Musica per i tuoi sogni (1949) di Michael Curtiz e Vecchia America (1951) di Roy Del Ruth a Tè per due (1950) e Non sparare, baciami! (1953), entrambi di David Butler, in cui tra una smorfia e una moina non rinuncia a esibirsi nei suoi maggiori successi canori come “It’s Magic” e “Secret Love”. Volta pagina quando abbandona la Warner e ricomincia da capo con Amami o lasciami (1955) di Charles Vidor. La zuccherosa ragazza della porta accanto diventa l’aggressiva sciantosa di uno squallido night in grado di tener testa a James Cagney, mastica chewing gum e ancheggia al ritmo della musica, non ha paura di esser volgare dando vita a uno dei suoi personaggi più intensi e spregiudicati. L’occasione più memorabile della sua carriera gliela offre Alfred Hitchcock con L’uomo che sapeva troppo (1956).

La sua interpretazione della mamma angosciata per la sorte del figlio rapito coincide perfettamente con il meccanismo della suspense. Se l’urlo straziante all’Albert Hall è da antologia, quando all’ambasciata canta a squarciagola “Que sera sera” – destinata a diventare la sua canzone feticcio oltre a farle vincere l’Oscar – il motivo attraversa corridoi e scalinate fino a raggiungere la stanza dove è prigioniero il bambino che lo riconosce e comincia a fischiettarlo. Il vertice della popolarità arriva con un gruppo di commedie sceneggiate da Stanley Shapiro, dove gli ingredienti canonici del personaggio dalla vivacità rassicurante e perbenista non sono mai abbandonati del tutto ma piuttosto enfatizzati fino a farli diventare maliziosamente divertenti.

Sempre illibata, corazzata nei costosi vestiti del bon ton yankee, inavvicinabile senza certificato di matrimonio in mano, la protagonista di Il letto racconta (1959) di Michael Gordon, Amore, ritorna (1961) di Delbert Mann, Non mandarmi fiori! (1964) di Norman Jewison, non smette mai di tenere a bada ma insieme di rincorrere Rock Hudson, sotto l’occhio stralunato di Tony Randall, imbranato chaperon di ombrosa malignità. Siamo nel territorio scivoloso dell’allusione, del doppio senso, del dico non dico, un passo avanti e uno indietro. Nell’eterna guerra dei sessi, la bionda Doris trasforma il disagio in sussiego, si prende in giro bamboleggiando quanto basta per strizzare l’occhio alla platea. Se i fans di allora vedevano nelle sue sex comedy la conferma dei ferrei principi morali della loro beniamina, oggi ci sembrano altrettanti timidi segnali di congedo dal Codice Hays, mentre il cinema hollywoodiano stava avviandosi alla sua controversa modernità.

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