“Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta”. La donna guerriera e il girl power seicentesco a Palazzo Barberini

by Michela Conoscitore

Il girl power, per fortuna, è retroattivo. La contemporanea visione femminista, senza voler lanciare strali tardivi, guida a letture differenti in ogni ambito umano. Pensate all’arte dove, uomini e donne, per millenni hanno prodotto opere simili. Tuttavia, su quelle femminili è pesato il giudizio dell’epoca, della moralità avversa ponendole, dunque, in ombra. Il loro era un controcanto flebile e quasi ignorato. Oggi quelle opere è possibile ricollocarle nei giusti contesti, in confronti pari tra grandi artisti ma con le appropriate considerazioni. Un confronto del genere va in scena fino al 27 marzo a Palazzo Barberini a Roma con la mostra “Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento”: curata da Maria Cristina Terzaghi, sono ben trentuno le opere, suddivise in quattro sezioni, dove protagoniste sono le tele speculari e differenti di Michelangelo Merisi e Artemisia Gentileschi.

Prestiti internazionali e nazionali hanno permesso questa rappresentazione teatrale che, dal palcoscenico dello spazio mostre di uno dei musei più belli della Capitale, non solo racconta nuovamente uno dei grandi protagonisti del nostro Cinquecento, Caravaggio, ma concede spazio agli innumerevoli accoliti caravaggeschi e, soprattutto, ad Artemisia narrando quindi un periodo irripetibile dell’arte italiana. Il pittore di Bergamo aveva indicato la via, la pittora capitolina quella via l’aveva intrapresa ma decise di percorrerla a modo suo, alla luce degli accadimenti personali e della propria condizione femminile. Il dipinto Susanna e i vecchioni della Gentileschi testimonia chiaramente come la donna era percepita all’epoca: preda, oggetto di piacere, null’altro. Le donne erano involucri vuoti, riempiti dagli uomini. Artemisia non ci stette, e dopo lo stupro subito da un amico del padre Orazio, si ribellò allo status quo con la creatività. Le donne pittrici erano paragonabili alle chimere, esseri fantastici la cui esistenza non poteva essere confermata da nessuno. Quindi, Artemisia dovette lottare innanzitutto per affermare la sua esistenza nell’arte coeva. Ci riuscì, vinse, diventò un esempio da seguire. Ambì a superare i maestri, l’amato padre Orazio e lo stesso Caravaggio che probabilmente conobbe, battendoli a modo suo.

Il tema di Giuditta nelle committenze artistiche non l’ha sdoganato il Merisi, sono innumerevoli i dipinti che ritraggono la coraggiosa vedova della città di Betulia che riuscì a salvare il popolo ebraico dall’invasione degli Assiri decapitando il loro generale, Oloferne, invaghitosi della sua bellezza. Esempi pre-caravaggeschi sono quelli che si possono ammirare nella prima sezione della mostra, tra questi le opere di Tintoretto e Lavinia Fontana che rincorrono la ‘Maniera’, fornendo un’interpretazione canonica del racconto biblico. Poi arriva Caravaggio, e nulla sarà più come prima: la tela del Merisi ha da raccontarci una storia particolare, infatti fu dipinta per il banchiere ligure Orazio Costa nel 1599 che la tenne gelosamente per sé, vietandone la visione e la riproduzione. Dopo la sua morte, il quadro rimase comunque a Roma, quasi dimenticato tra le innumerevoli opere di proprietà della famiglia Coppi. Fu grazie al restauratore Pico Cellini che la Giuditta di Caravaggio fu riscoperta settant’anni fa, e in seguito acquisita dallo Stato.

Quando vi troverete davanti alla Giuditta caravaggesca imprimetevi in mente ogni sua peculiarità, le novità introdottevi e i colori avvolti nelle inimitabili ombre del Merisi. Fatto? Bene, ora proseguite verso la terza sezione. Sarà come fare un salto nel futuro, attorniato da altri dipinti che si discostano di molto dall’interpretazione di Caravaggio, spiccherà il quadro di Artemisia. Rammentate la tela del Merisi e poi guardate bene quella della Gentileschi: il confronto è spiazzante, sembra che i due quadri raccontino quasi due storie differenti perché la Giuditta del Caravaggio conserva la visione maschile della donna, ricordate gli involucri vuoti da riempire, mentre la Giuditta di Artemisia è una guerriera. Tutto sta nello sguardo, nelle movenze delle due Giuditta. Quella caravaggesca per quanto determinata, ha timore negli occhi, sembra recalcitrante, pare decapiti Oloferne controvoglia, come se fosse un compito che non dovrebbe assolvere lei in quanto donna. Ma per il suo popolo lo fa, dimenticando momentaneamente la debolezza propria del suo genere. Invece la Giuditta di Artemisia decapita il generale assiro con determinazione, con cipiglio fiero affonda la lama nel collo dell’uomo, e lo sguardo è quasi divertito. Finalmente passa all’azione, è lei la protagonista dell’evento che capovolge le sorti di un intero popolo. Inoltre, anche la fantesca ha un ruolo attivo nel dipinto della Gentileschi, collabora plasticamente con Giuditta nella decapitazione di Oloferne, non rimane a guardare fissa e attonita come la corrispondente caravaggesca. Insomma una ‘sorellanza’ inedita quella proposta da Artemisia, così il girl power, prosaicamente a lei ricondotto, viene fuori prepotente con la lettura della mostra di Palazzo Barberini. Proseguendo nella visita si incontra uno dei dipinti presenti in mostra di Orazio Gentileschi, Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne, in cui si nota la distanza tra la sua opera e quella della figlia che affronta la medesima tematica: se la Giuditta di Orazio quasi nasconde la spada vittoriosa con cui ha salvato il suo popolo, la Giuditta di Artemisia quella spada se la carica sulla spalla, orgogliosamente, mettendola in risalto come un trofeo, più della testa di Oloferne.

Interessante il confronto, nell’ultima sezione del percorso espositivo, tra il racconto di Giuditta e quello di David e Salomè. Se il primo, come Giuditta, salva il popolo ebraico dal gigante Golia dei nemici Filistei, Salomè come Giuditta è donna che agisce anche se per un intento diametralmente opposto. Salomè, figlia di Erodiade, non ha alcun popolo da salvare ma decapita san Giovanni il Battista per puro piacere personale. Un’affermazione sanguinaria questa della volontà femminile che ha sempre esercitato, nei secoli, una certa fascinazione e numerose committenze. Come monito, forse, perché gli uomini hanno sempre saputo che messe in condizioni le donne sono capaci di fare tutto, anche uccidere senza pietà e per gioco.

A proposito di donne che possono tutto, se vorrete proseguire il percorso tutto al femminile nell’arte potrete visitare con lo stesso biglietto di Palazzo Barberini anche la mostra alle Gallerie Corsini di Roma in via della Lungara, sempre fino al 27 marzo, dedicata all’architettrice Plautilla Bricci.

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