Sepsi, insufficienza renale e problemi neurologici. «Quasi tutti i pazienti sviluppano depressione»: a colloquio con la prof. Lucia Mirabella

by Michela Conoscitore

I reparti di terapia intensiva sono il fulcro attraverso il quale questa emergenza pandemica si è palesata: da mesi, ormai, siamo abituati a leggere dei dati che indicano la disponibilità di posti letto nei reparti che più sono stati presi d’assalto all’inizio della pandemia.

Ciò è accaduto perché un livello così alto di degenze in tali reparti non era stato mai preventivato o contemplato. I medici anestesisti hanno davvero fatto dei salti mortali per curare tutti, e tuttora sono impegnati in prima linea negli strascichi della seconda ondata.

Ora che Governo e Regioni stanno provando a scongiurare e contenere il pericolo di una terza ondata che dovrebbe interessare le settimane immediatamente successive al periodo delle festività natalizie, i reparti di Terapia intensiva stanno iniziando a far la conta dei posti letto e organizzarsi per un eventuale aggravamento dell’andamento pandemico.

bonculture ha intervistato la professoressa Lucia Mirabella, medico anestesista del reparto di Terapia intensiva degli Ospedali Riuniti di Foggia per analizzare insieme non soltanto le ferite che il Covid-19 lascia in modo definitivo sui malati, ma anche il lavoro dei medici anestesisti in uno dei reparti ospedalieri più difficili al momento.

Professoressa Mirabella qual è la situazione nel reparto di Terapia intensiva degli Ospedali Riuniti di Foggia? I posti letto sono tutti occupati?

Attualmente abbiamo 27 pazienti Covid ricoverati in Terapia intensiva, distribuiti in tre reparti. È una situazione che sta cambiando molto rapidamente, stiamo aumentando il nostro potenziale perché ci stiamo trasferendo nei nuovi plessi. Passeremo a 32 posti attivi di Terapia intensiva per malati Covid che, purtroppo, già stiamo riempiendo.

Prevedete di aprire nuovi moduli?

Il trasferimento di questi giorni riguarda due plessi da sedici posti letto, a cui si aggiunge un terzo da sei posti letto attrezzato ma non ancora attivo, che abbiamo preventivato in vista della terza ondata.

Qual è la fascia d’età più rappresentata per quanto riguarda i pazienti durante questa seconda ondata? Quali sono le differenze con la prima?

L’età si è abbassata, la fascia d’età più rappresentata è quella tra i sessanta e i settant’anni. Durante la prima ondata i pazienti erano più anziani, parlo di pazienti ultraottantenni affetti già da varie patologie. Loro erano considerati la fascia più delicata della popolazione. I pazienti della seconda ondata, oltre ad essere più giovani, non hanno altre patologie associate.

Quali sono le complicanze più frequenti che i pazienti presentano e che incontrate ogni giorno?

Le sequele più importanti che il Covid lascia sui pazienti sono le cicatrici polmonari, a distanza di due tre mesi dal ricovero, notiamo ancora pesanti strascichi a livello polmonare: sono soggetti che hanno problemi respiratori, e si affaticano molto facilmente. In reparto, invece, le complicanze più frequenti sono quelle tromboemboliche, tutti i degenti presentano alterazioni nella coagulazione tant’è che le terapie si prendono cura anche di questo aspetto. Importanti sono anche le ripercussioni neurologiche, quasi tutti sviluppano depressione in una percentuale abbastanza elevata, accade nel 60% dei pazienti Covid. Durante la degenza sono usuali gli episodi di deliri e allucinazioni. Ansia e paura che scaturiscono anche dall’impossibilità di rimanere in contatto diretto con i famigliari.

Un polmone pesantemente attaccato dal virus, e quindi divenuto fibrotico, quanto condizionerà la qualità di vita nell’ex malato Covid?

I malati Covid che presentano queste cicatrici polmonari, dobbiamo dirlo chiaramente, non torneranno mai più a condurre una vita normale. Essi incontrano difficoltà nelle attività più semplici come una camminata, proprio perché queste lesioni sono molto limitanti.

Professoressa, pensando anche alla novità della malattia, come vi rapportate con i pazienti dal punto di vista umano?

Sia per i malati, ma soprattutto per noi operatori medici è risultato difficile instaurare un contatto con loro: lei saprà che quotidianamente in reparto lavoriamo bardati da queste tute che ci coprono interamente e ci rendono anonimi per il paziente. Abbiamo iniziato con lo scrivere nomi e abbellendo le tute con disegni per facilitare il malato nell’instaurare un rapporto con chi lo sta curando, oltre ad identificarlo. Questa situazione crea una sensazione di smarrimento: i malati si trovano in un luogo che non conoscono, stanno affrontando una malattia nuova e sono sottoposti a terapie che non forniscono certezze totali sulla loro guarigione, tutti stiamo navigando a vista, di certo in questa pandemia almeno finora non c’è niente. Le sensazioni che anche noi proviamo più spesso sono solitudine e ansia che, poi, danno vita ad un vero e proprio terrore che ci si porta dietro per mesi.

Come vi state destreggiando voi medici, allora, in questa situazione così complicata dal punto di vista psicologico?

Consideri che in questi mesi anche noi medici siamo seguiti da un programma di supporto psicologico organizzato dalla sezione di Psicologia clinica degli Ospedali Riuniti che ci ha aiutato moltissimo in questo aspetto. Anche per rapportarsi al paziente, per fargli comprendere che le nostre decisioni erano per il suo bene, quindi abbiamo appreso tutte quelle strategie per provare a tranquillizzarli. L’arrivo dei tablet in ospedale, poi, per favorire le videochiamate con le famiglie si è rivelato utilissimo. Ci hanno aiutato molto nel mettere a loro agio i pazienti.

Secondo lei perché la mortalità è aumentata rispetto alla prima ondata della pandemia?

Le percentuali sembrano rimaste simili, forse nella causa si è verificato un cambiamento: durante la prima ondata la causa principale dei decessi per Covid era l’insufficienza respiratoria, in quei mesi i malati che arrivavano in Terapia intensiva avevano un quadro molto complicato dal punto di vista polmonare. Oggi arrivano prima da noi, con quadri meno gravi e sviluppano in reparto le patologie associate, sto parlando di sepsi e insufficienza renale, ma sono già in osservazione e quindi sotto controllo.

Una mortalità che riguarda, purtroppo, anche chi come voi medici è impegnato in pima linea nella lotta al virus: nei giorni scorsi è arrivata la notizia della morte per Covid del dottor Domenico Mele, anestesista molto conosciuto in provincia. Una sua riflessione in merito?

Lo conoscevo abbastanza bene, era un’anestesista molto noto e che ci ha insegnato tanto. È stato un grande dolore apprendere della sua scomparsa, ma sappiamo che ha combattuto come un leone contro la malattia perché lui era così, caratterialmente molto forte. Però anche lui aveva una serie di comorbidità che l’hanno poi portato al decesso.

Come vi state preparando alla terza ondata? Avete già previsto un piano d’azione?

In queste ultime settimane c’è stato un lavoro fittissimo, voluto dalla direzione generale, per prepararci alla terza ondata che ha visto la collaborazione di tutti i livelli della piramide gerarchica del nostro ospedale. Oltre all’espansione della terapia intensiva a cui le accennavo prima, ci è stato di supporto anche l’ufficio tecnico nell’ideare piani di emergenza per fronteggiare situazioni difficili.

Quali sono le sue previsioni in merito alla terza ondata?

Nel periodo post-natalizio si verificherà sicuramente un aumento di contagi, perché a differenza di questa estate per clima e stili di vita, adesso la permanenza si concentrerà maggiormente in luoghi al chiuso e a contatto con altre persone. Durante la seconda ondata abbiamo visto che l’origine dei contagi era da individuare in famiglia, quel che credo si verificherà anche con la terza. Verso fine gennaio assisteremo probabilmente a quel che abbiamo già vissuto in questi mesi, ovviamente non so prevederne l’entità.

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