Oscar 2021: Nomadland ma non troppo

by Nicola Signorile

Nomadland ma non troppo. La 93a notte degli Oscar ancora una volta cerca di accontentare tutti, artisticamente e politicamente. Ma l’impressione è che da celebrazione del miglior cinema dell’anno abbia assunto, quest’anno più del solito, le sembianze di un palcoscenico per affermare principi, per fare i conti col suo passato poco inclusivo (ricordate #oscarssowhite nel 2014 e 2015) che ha portato l’Academy a cambiare radicalmente in direzione delle minoranze anche le regole per l’ammissione dei film alla corsa. Risultato: prevale la volontà di risarcire la comunità black, e tutte le minoranze, di anni di indifferenza e dimenticanze trasformando la premiazione in una notte dell’orgoglio afroamericano con un record di nove attori  afroamericani nominati.

Ma chi ha vinto? – Come ormai gli Oscar recenti ci  hanno abituato non c’è un vero asso pigliatutto. Nomadland senza dubbio è il vincitore: miglior regia a Chloè Zhao, seconda donna e prima asiatica a vincere un Oscar per la regia, e miglior film, dopo il Leone d’Oro a Venezia. Si conferma la corrispondenza di amorosi sensi tra gli Oscar e il festival di Alberto Barbera. Manca la sceneggiatura. Il miglior adattamento spetta a The Father, tratto dall’omonima pièce teatrale di Florian Zeller, che ha anche diretto la versione cinematografica, mentre lo script originale va a Emerald Fennell, anche regista di Una donna promettente, una riflessione amabilmente dark sulla vendetta e sulla cultura dello stupro.

Torna a casa a mani vuote il verboso e impegnatissimo Il processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin, quasi all’asciutto anche quello che è forse il miglior film dell’anno, Mank di David Fincher (entrambi Netflix Original), solo due statuette per fotografia e scenografia su dieci nomination. Oscar tecnici (montaggio e sonoro) anche per il bellissimo Sound of metal sul dramma di un batterista che perde l’udito, disponibile su Prime. Due Oscar anche per Soul, miglior film d’animazione di Dana Murray e Pete Docter, alla terza statuetta consecutiva dopo Up e Inside Out, un vero record, e miglior colonna sonora firmata da Trent Reznor, Atticus Ross e Jon Batiste. Il miglior film internazionale è, come da pronostico, il danese Un altro giro di Thomas Vintenberg, forte della vittoria di tutto quello che c’era da vincere negli ultimi mesi.

In generale, la sensazione è che un pugno di buoni film non basti a salvare una stagione che ha scaldato poco il cuore degli spettatori, privati quasi del tutto delle visioni in sala. Opere ben fatte ma dal fiato corto che, a parte Mank, probabilmente non resteranno nella storia della settima arte, significative più per ragioni politiche contingenti, che per il loro intrinseco valore artistico. Alla luce di questo, non può lasciare indifferenti il fatto che Christopher Nolan sia stato ancora una volta ignorato dall’Academy e che si debba accontentare dell’unico Oscar per gli effetti speciali per il suo controverso Tenet: comunque la si pensi una spanna sopra la gran parte dei film candidati per complessità, ambizione e messa in scena.

Vera rivoluzione? Lo show è rivoluzionato nella forma dalle misure anticontagio. Evidente la ricerca di una formula non ortodossa per la notte più attesa dall’entertainment internazionale. Una situazione straordinaria richiede radicali ripensamenti. Quando questi vanno incontro alle esigenze di distanziamento fisico e di creazione di un’atmosfera più rilassata, funzionano. Quando, al contrario, si cambia solo per il gusto di cambiare, il risultato è disastroso. Perché, citando l’errore più clamoroso, anticipare l’annuncio del premio più importante, il miglior film, lasciando la parte finale dello show agli attori? Probabilmente i produttori dello show, Steven Soderbergh, Jesse Collins e Stacy Sher (la regia è di Glenn Weiss), contavano sull’effetto emotivo dell’Oscar postumo a Chadwick Boseman, grande favorito della vigilia.

Previsioni disattese e finale con statuetta in contumacia andata ad una gigantografia dell’assente Anthony Hopkins, per The Father; secondo Oscar a 29 anni da Il silenzio degli innocenti. Falliti anche i pronostici sulla miglior attrice: restano a bocca asciutta Viola Davis e soprattutto la favorita Carey Mulligan, costrette ad applaudire la collega Frances McDormand, che riceve il suo terzo Oscar (dopo Fargo e Tre manifesti a Ebbing, Missouri) con un ululato e poche parole. Entra così nel club esclusivo degli attori premiati tre volte al fianco di Meryl Streep, Jack Nicholson, Ingrid Bergman, Walter Brennan e Daniel Day-Lewis, anche se l’attore inglese e l’interprete di Nomadland sono gli unici ad aver vinto tre Oscar da protagonisti.

 Inoltre, in una serata con ospiti con il contagocce, mancano autentici momenti di spettacolo con le performance musicali spostate nel pre-show. A proposito, non ce la fa Laura Pausini con la sua “Io sì (Seen)” dal film La vita davanti a sé, ma obiettivamente la concorrenza era feroce: troppo forte H.E.R in “Fight For You” da Judas and the Black Messiah (la storia di Fred Hampton, leader delle Pantere Nere regala il primo Oscar come non protagonista a Daniel Kaluuya) ma notevoli erano anche “Husavik” da Eurovision Song Contest e “Speak Now” da Quella notte a Miami…A stupire sono più i riconoscimenti, gli unici, per il pamphlet Ma Rainey’s Black Bottom per trucco e costumi a scapito degli italiani Massimo Cantini Parrini, Dalia Colli e Francesco Pegoretti, candidati per il Pinocchio di Matteo Garrone, una scelta che di artistico ha ben poco.

A differenza dello scorso anno, la cerimonia si svolge in presenza, quindi niente imbarazzanti scene dai divani di casa, né discorsi di ringraziamento su zoom. Ma non si torna neanche nel classico Dolby Theatre preferendogli la Union Station di Los Angeles, con alcuni candidati in collegamento da un set londinese. Lo show pre-Oscar è il momento migliore della serata, in versione happy hour all’aperto con le star tutte nello stesso luogo sedute a chiacchierare al bancone di un bar o su divani in stile cocktail party disseminati su una piazza virtuale nella quale si muovono i due conduttori, Lil Rel Howery, co-protagonista di Get Out e Judas and the Black Messiah e Ariana DeBose che sarà Maria in West Side Story di Steven Spielberg; il teaser del nuovo film del regista è il momento cinematograficamente più alto della nottata.  

La Union Station, la storica stazione ferroviaria nel centro di LA regala allo show una intimità diversa, con i candidati seduti in cabine con lampade e tavoli individuali, quasi come assistessero a uno spettacolo di cabaret. Fioccano sin dall’apertura di Regina King i riferimenti alla sentenza per l’omicidio di George Floyd e ai nuovi, recenti misfatti della polizia americana ai danni di afroamericani, che riempiono di indignazione molti discorsi di accettazione di premiati “minori”. Però lo show inciampa spesso sul ritmo, ha un andamento capovolto con speech prolissi all’inizio e sempre più stringati via via che i premi si fanno più importanti. Peccato, perché quest’anno manca la consueta ghigliottina musicale sui discorsi dei premiati. Per una volta liberi di prendersi il tempo necessario, ne approfittano in pochi: su tutti l’attrice coreana Yuh-jung Youn, migliore non protagonista per Minari (Glenn  Close sconfitta per l’ottava volta), incredula, accolta da Brad Pitt produttore del film, con codino: “Finalmente! Piacere di conoscerti, signor Brad Pitt”. Poi scherza sulle storpiature del suo nome, “Mi avete chiamato con tanti nomi diversi ma stasera siete tutti perdonati”. E prosegue,  “Vivo dall’altra parte del mondo, per me questo l’Oscar è un programma televisivo. Non posso credere di essere qui, lasciatemi riprendere un attimo”.

Poche le clip di presentazione di film e candidati, c’è più spazio per i presentatori maggiormente coinvolti nella cerimonia chiamati a raccontare frammenti di vita dei nominati e a volte autori di veri e propri endorsement, una novità interessante che riempie molti vuoti.  Alcuni momenti avrebbero meritato più spazio. Lo squilibrio emerge clamorosamente con la carrellata di In memoriam a velocità aumentata che non consente di soffermarsi sulle decine di stelle scomparse nell’ultimo anno, compresi gli italiani Ennio Morricone, Alberto Grimaldi e Giuseppe Rotunno. Ma ricordiamo Sean Connery, Alan Parker, Bertrand Tavernier, Kim Ki-Duk, Michel Piccoli, Max Von Sydow e Christopher Plummer, solo per citare i più noti.

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