Keith Haring, il bambino che disegnava ovunque. Street Art Boy per sempre

by Claudio Botta

«Voglio essere una candela accesa alle due estremità, che brucia e che brilla. E anche se non diventerò vecchio, le opere che ho realizzato resteranno e vivranno a lungo».

A 33 anni dalla morte, il mito di Keith Haring è un fuoco – e non una candela – che continua a brillare altissimo, alimentato da migliaia di opere tracciate sulle superfici più disparate e sparse per il mondo (vivamente consigliata la visione di Tuttomondo, il murales realizzato sulla parete esterna di 180 mq – lunga 18 metri ed alta 10 – del convento di Sant’Antonio Abate a Pisa nel 1989, attualissimo nel suo simboleggiare la voglia di vita, di pace nel mondo e di futuro attraverso gli incastri di trenta coloratissime figure), oppure ospitate in musei e in decine di mostre. E dalle infinite licenze autorizzate dalla omonima Fondazione creata prima di morire per sostenere l’infanzia più fragile e la ricerca contro l’Aids, e che proseguendo l’intuizione del suo Pop Shop aperto a SoHo nell’aprile del 1986 ha portato fino all’estremo la sua intuizione e missione: rendere l’arte davvero accessibile a chiunque, per semplicità – ma non banalità – del messaggio e per prezzo. La malattia ha fermato presto il suo viaggio terreno, ma il tempo non ha appannato l’impatto emotivo e sociale del talento e della creatività frenetica e bulimica dello Street Art Boy.

Il bambino che disegnava ovunque, come il padre innamorato dei fumetti, che già a 8 anni scriveva sul diario di «voler fare l’artista da grande, in Francia»; e che arrivato a New York con una già robusta formazione si iscrisse alla School of Visual Art (dove in un bagno incontrò per la prima volta un writer che stava scrivendo sul muro una frase siglata SAMO: era Jean Michel Basquiat, e sarebbe diventato un grande amico) ma capendo presto che l’ispirazione più potente era quella che derivava dal contesto urbano in continuo fermento. Dall’atmosfera che si respirava di giorno nelle strade, tra i palazzi, le pareti, le superfici statiche e in movimento invase dai graffiti che erano la risposta del mondo underground allo strapotere della pubblicità e al peso schiacciante di una società divisa per strati e lacerata da ingiustizie e pregiudizi, un nuovo linguaggio che esprimeva un mondo coloratissimo in risposta e per reazione al grigio dilagante del degrado, delle guerre, delle ipocrisie; e di notte nei locali, il Club 57 in particolare, ritrovo di artisti affermati ed emergenti, la trasgressione come regola, ricerca, libertà, la musica e la droga spinte al massimo, insieme alla voglia di essere soltanto se stessi. La partecipazione al Times Square Show (giugno 1980), la prima collettiva di street artist dal successo di pubblico tale che richiamare l’attenzione dei galleristi e dei mercanti affermati, il primo importante traguardo raggiunto a 22 anni. Il secondo, ancora più importante, offerto dagli spazi pubblicitari nelle stazioni della metropolitana vuoti per la crisi economica, pannelli neri che diventavano delle tele nelle quali riversare compulsivamente i suoi disegni, rigorosamente con gessetti bianchi: espressioni meno invasive rispetto alle vistose lettere realizzate con le bombolette spray, ma impossibili da non notare, e il bambino radiante abbozzato mentre cammina carponi, l’animale prima indefinito, ma poi sempre più simile a un cane, che abbaia e l’omino che balla diventano – ispirati ai ‘cut-up’ di William Burroughs – simboli di un’epoca che opera una decisa e profonda cesura con il passato. Se prima il 90 per cento stimato dei frequentatori abituali della metropolitana, studenti, pendolari, turisti, non era mai entrato in una galleria d’arte, adesso quella barriera e quella distanza sono azzerate e il sogno americano appare finalmente e veramente a portata di chiunque. Anche degli artisti come lui le cui quotazioni lievitano vertiginosamente, e fare soldi, valere tanti soldi diventa accettabile. Così come diventa normale frequentare, essere amico, chiamare per nome celebrità come Andy (Warhol), Madonna (che gli chiese di griffare col suo inconfondibile tratto la giacca rosa shocking con cui avrebbe cantato per la prima volta su un palco Like a Virgin) , Joko (Ono), Michael (Jackson), Brooke (Shields), essere considerato una rockstar, nonostante gli occhialini da nerd e la stempiatura, essere nel club ristrettissimo degli ammessi al Paradise Garage, la discoteca al civico 84 di King Street, nel Greenwich Village, nella quale sono state scritte le pagine più importanti della storia della culture club dell’epoca, inaugurata nel settembre 1977, aperta nelle notti di venerdì e sabato, clientela composta prevalentemente da gay latini o afro-americani, donne ed etero l’eccezione. Un ambiente ideale per lasciarsi travolgere da musica (i dj set leggendari di Larry Levan interrotti da performance live di Grace Jones, Chakra Khan, Sylvester, Madonna), sesso, acidi, allucinogeni, mescalina, cocaina nelle ore sottratte al lavoro e ai viaggi; e per organizzare feste di compleanno memorabili, come il Party of Life del 16 maggio 1984 i cui inviti disegnati ovviamente da Haring hanno un valore inestimabile.

«Quando dipingo vivo un’esperienza che nei momenti più felici trascende la realtà. Quando funziona entri in un’altra sfera, ti avvicini a qualcosa di universale, a un senso di consapevolezza che va oltre te stesso. Il peggior insulto che possano rivolgermi è di essermi venduto. Ho cercato per tutta la vita di lasciarmi coinvolgere da quel che accade nel mondo senza perdere la mia integrità. È stata una battaglia continua. Ma quando hai successo ti fai un sacco di nemici, gente che pensava di meritarlo al posto tuo. Così dicono che ti sei venduto. Io non mi sono mai venduto, mai», spiega nel 1989 David Sheff, giornalista di Rolling Stone, in una coraggiosa intervista in cui parla apertamente dell’Aids che non lo risparmierà e ne è pienamente consapevole: «La cosa più terribile è sapere che sarà un lungo, progressivo logoramento, sino alla fine. Mi terrorizza l’idea di svegliarmi un giorno e di non avere più la forza di lavorare. Ma non mi lamento. In un certo senso sapere è quasi un privilegio. Quand’ero piccolo pensavo che sarei morto giovane. Così ho praticamente vissuto come se me lo aspettassi. Ora lo so. Ho fatto tutto quello che volevo. Lo sto ancora facendo», le sue toccanti parole. Ma rompe fragorosamente il silenzio dettato dalla paura paralizzante dello stigma suppletivo, di essere marchiato dalla superficialità e dal pregiudizio (in quegli anni l’Aids era definito ‘il cancro dei gay’), e regala uno spessore ancora più marcato alle sue ultime opere e al suo impegno mirato ad aumentare l’attenzione sulla prevenzione e la ricerca, a differenza di tante altre star ammalate che scompaiono nel silenzio.

E il finale tormentato e doloroso (16 febbraio 1990, aveva 32 anni) è diventato solo un capitolo di una storia che continua e continuerà ancora a lungo. Fino a quando continueranno a nascere bambini talentuosi che verranno ispirati da figure buffe e colorate, e daranno a loro volta sfogo alle loro fantasie, pensando che la diversità è ricchezza e il mondo uno spazio libero da proteggere e abitare, ballandoci con qualunque tipo di musica e preferendo il sorriso alla prevaricazione e alla violenza.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.