I sommersi e i salvati: un dialogo con Luigi Manconi

by Felice Sblendorio

«Per noi, per l’opinione pubblica e per la classe politica i sommersi sono coloro che hanno perso la vita nel Mediterraneo, scomparsi in fondo al mare, inghiottiti dalle onde. I salvati sono i sopravvissuti, coloro che non muoiono e che sbarcano sulle nostre coste. I primi – i sommersi – li chiamiamo vittime, i secondi – i salvati – li chiamiamo clandestini, quasi fossero i soldati di un esercito invasore o di una flotta nemica che giunge dal mare o i militanti di un’organizzazione terroristica. E, in questa definizione negativa, c’è una singolare eco storica: per Levi i salvati erano i testimoni non creduti, i superstiti che temono di essere presi per millantatori. E pensa, d’altra parte, com’è atrocemente falso il termine «clandestino». I migranti e i richiedenti asilo che sbarcano sulle coste della Sicilia sono tra gli individui meno clandestini al mondo: arrivano inermi, spogliati, gracili, spossessati di tutto e massimamente esposti: alla luce delle telecamere e dei fari della polizia, allo sguardo del pubblico e dei soccorritori, alla curiosità e alla solidarietà, ma anche all’ostilità. Chiunque li può vedere e scrutare: sono nudi».

Scriveva così Luigi Manconi in “Corpo e anima. Se vi viene voglia di far politica”, edito da minimum fax. Queste parole ritornano in mente oggi, in occasione di un appello e una mobilitazione – in programma domani alle 18.00 in Piazza San Silvestro a Roma – per chiedere al Governo italiano e all’Unione Europea di azzerare i fondi alla guardia costiera libica, rinnovati il 16 luglio dalla Camera dei Deputati per il quarto anno consecutivo. Accanto a Manconi e Saviano, ideatori dell’appello, hanno firmato – fra gli altri – Parrella, Veronesi, Murgia, Ciabatti, Valerio, Terranova, Gifuni, Sea Watch, Mediterranea, Medici Senza Frontiere, Bonino, Cuperlo, Orfini, Magi, Palazzotto e il manifesto.

bonculture ha intervistato Luigi Manconi, sociologo, presidente dell’Associazione “A buon diritto”, già parlamentare e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Ricordato spesso accanto alla famiglia Cucchi per chiedere giustizia e verità per l’omicidio di Stefano, Manconi ha una storia politica antica fatta di impegno, corpo e diritti. Nel 1995 presentò il primo disegno sulle unioni civili, nel 1996 il primo sul testamento biologico: da lì le battaglie e l’attenzione su temi delicati come l’immigrazione, le tossicodipendenze, la scarsa efficacia del sistema penitenziario e gli omicidi di «malapolizia».

Professore, lei ha ideato e firmato un appello intitolato “I sommersi e i salvati” per ribadire un dissenso contro la scelta dell’Italia di finanziare nuovamente la guardia costiera libica. Nonostante le certificate violazioni dei diritti umani, e dopo anni di denunce e proclami, siamo ancora qui: perchè?

Perchè ritorna tuttora, all’interno della classe politica e del parlamento, un’idea dell’immigrazione in cui prevalgono sentimenti di insicurezza, paura dell’invasione, timori di tensioni sociali. La risposta conseguente, dunque, è di controllo e di repressione, perchè il ruolo della guardia costiera libica è esattamente questo: controllo e repressione, lo ribadisco. Quell’attività non solo è destinata a bloccare i migranti che tentano la traversata del Mediterraneo, ma in un numero rilevantissimo di casi a riportarli all’interno di quei centri di detenzione dove si consumano quotidianamente violazioni di diritti umani, sevizie, torture. Inoltre, le attività di controllo e repressione fanno parte di una più complessa attività dove operano le milizie, i membri del traballante stato libico e, appunto, la cosidetta guardia costiera che è il terminale di un traffico di esseri umani che mobilita i migranti per ricavarne profitti e realizzare politiche che riguardano sia la Libia che i rapporti con gli altri Paesi europei.

Roberto Saviano, che con lei ha ideato questo appello, su Repubblica ha scritto: «Per non regalare il Paese a Salvini, sono diventati come Salvini». Si critica ovviamente la posizione del Partito Democratico che, nonostante una scelta contraria dell’assemblea nazionale, ha votato favorevolmente. Anche lei crede ci sia un appiattimento della dirigenza del Pd su questo tema?

Ci sono due aspetti. Intanto è una sindrome ben nota quella per la quale si tende a imitare l’avversario pensando così di renderlo inoffensivo. Il risultato, però, è quello di assomigliare all’avversario, perdendo così la propria identità. E in politica perdere la propria identità è la premessa alla rovina. C’è, poi, una seconda sindrome che è quella che non agisce per non offrire un tornaconto politico-elettorale all’avversario. Personalmente credo nell’esatto contrario: per sconfiggere l’avversario bisogna prendere l’iniziativa, non subirla. Da questo punto di vista il Pd subisce l’iniziativa di Salvini, della destra, addirittura i suoi ricatti e alcuni segmenti della sua sottocultura. In questi ultimi mesi, inoltre, il Pd ha subito la pressione dei 5 stelle e così, effettivamente, si è creato una sorta di allineamento, o di appiattimento come lei suggeriva.

In ballo c’è l’identità dell’ultimo grande partito di sinistra?

Esattamente: in ballo c’è l’identità del partito. O il Pd in questa coalizione di governo – che io sostengo come una scelta emergenziale – ha una capacità di proporre i suoi obiettivi, di perseguirli e di disegnare i tratti della fisionomia dell’esecutivo in un senso coerente con i presupposti di un partito di sinistra, oppure è ovvio che rischierà di perdersi.

Non crede ci sia una sorta di ipocrisia a sinistra se si contestavano Salvini e i suoi metodi e poi, senza il furore ideologico e i toni brutali del leader della Lega, si riapprovano gli accordi con la Libia e si aspetta più di un anno per modificare i decreti sicurezza?

Non credo sia precisissimo utilizzare il termine ipocrisia, perchè allude a un vero e proprio mascheramento, una finzione: troppo semplice. Qui c’è dietro una vera incertezza culturale e politica; questo è il problema più grave. Sui decreti sicurezza ci sono dei piccoli calcoli elettorali, la preoccupazione della stabilità del governo, ma c’è soprattutto un notevole smarrimento ideologico che si manifesta. Ancora una volta mi domando: che idea abbiamo dell’immigrazione? È un fenomeno che va sicuramente governato, ma poi integrato, e reso parte di una società nazionale ampia, complessa e articolata? Oppure è l’insidia da respingere, una minaccia da rifiutare, un fenomeno nemico da tenere fuori dai nostri confini? Se vale la prima ipotesi, allora i decreti sicurezza vanno smantellati il prima possibile perchè bisogna ripristinare lo SPRAR, uno strumento importante di inclusione. La scelta di ripristinarlo corrisponderebbe a una visione sulle politiche dell’immigrazione razionale e intelligente. Punto.

Nel rapporto 2020 sullo Stato dei diritti in Italia a cura di “A buon diritto” sottolineate la fallimentare efficienza dei Decreti Sicurezza: non hanno influito sugli arrivi, hanno creato una confusione sulle politiche dell’accoglienza, con la conseguenza di non aver inciso sulle espulsioni. Tutta propaganda?

Mi interessa, ribadisco, l’opzione culturale che c’è sotto, l’idea sulle politiche. I calcoli elettorali, il panico morale che certamente c’è e gli allarmi sociali sono tutte questioni fondamentali, sia chiaro. Bisogna preoccuparsi di queste pulsioni sociali? Certamente. Bisogna disinnescare questi allarmi non dando del razzista a chi li esprime? Certamente ancora. Ma a partire da quale idea? Se credo che le migrazioni siano un fattore importante di crescita per la società allora ho quel tipo di urgenze: ripristinare lo SPRAR, diffonderlo, moltiplicare il numero di comuni che lo attuano, implementare il tutto con politiche, incentivi, agevolazioni.

Questo appello si muove, simbolicamente, anche sull’onda emotiva di una foto terribile scattata il 29 giugno, quasi un mese fa. Nelle acque libiche un uomo senza vita è incastrato fra i tubolari di un gommone ormai sgonfio. L’Italia, la Libia e Malta si sono rifiutate di salvare quel cadavere. Cosa ha provato quando ha visto quell’immagine?

Purtroppo, non ha rappresentato per me una sorpresa così dirompente da provocare il mio sbigottimento, perchè è come se lo avessi già saputo. Non a caso, nei giorni successivi ci sono stati altri episodi esattamente identici che, molto opportunamente, Sea Watch non ha voluto pubblicizzare perchè non aggiungevano nulla a quell’orrore. Io sono favorevole alla pubblicazione di quelle foto, purché non diventino un oggetto di consumo pronto a determinare una “pornografia del dolore”. Queste notizie così crudeli e dolorose dovrebbero essere trattate con grande delicatezza.

In questi anni tanti sono stati i simboli delle tragedie nel Mediterraneo: dagli scatti del naufragio di Lampedusa nel 2013 all’immagine di Alan Kurdi. Nell’immaginario collettivo, però, sembra ci sia una sorta di assuefazione su questi drammi. Perchè non siamo in grado di costruire un trauma culturale solido, che identifichi anche le responsabilità dell’Occidente, su queste tragedie?

Lei definisce in maniera esattissima una delle grandi questioni di tipo culturale e morale. Però, poi, dobbiamo misurarci con il legno storto dell’umanità. L’assuefazione, come ben si sa, non è manifestazione di indifferenza, ma è un meccanismo di difesa, l’espressione di una rimozione: perchè per un verso l’orrore diventa abitudinario, mentre dall’altro può essere eccessivo rispetto alla tenuta psicologica di chi lo osserva. Dunque, chi lo osserva tende a ridimensionare. Io mi posi questo problema al tempo del primo naufragio italiano, nel 2013. All’epoca si vedevano tutti assieme centinaia di corpi, e quella visione ha prodotto un moto di sdegno. Ma già nei vent’anni precedenti, secondo un mio calcolo, ogni giorno morivano sei o sette persone nel Mediterraneo. Non tutti assieme, ma distribuiti nelle ore, nei giorni, nei mesi, negli anni. Allora come si può accettare tutto ciò, considerando che questi drammi avvengono un centimetro oltre i confini nazionali? Lo si può accettare solo a un prezzo: pensando che questi morti non siano come noi. Certo, non si arriverà a negare la loro condizione di esseri umani, la loro identità personale, ma per accettare una strage, un dramma, bisognerà comunque – inconsciamente – immaginarli meno di noi.

La spersonificazione, in qualsiasi dramma, agisce esattamente in questa direzione.

Oggi non ho la forza di ripeterlo, ma in più circostanze ho raccontato un particolare doloroso legato ad Alan Kurdi. Il suo nome veniva regolarmente storpiato aggiungendoci una y che non c’era nel suo nome. Su questo piccolissimo dettaglio suo padre fece un discorso drammatico.

Oserei dire che anche le parole sbagliate ostacolano questa costruzione. L’inflazione della cattiva parola, che è diventata una virtù, ha sdoganato termini che ricodificano tutto: “taxi del mare”, “crociera” …

In tutti i sensi, intendiamoci. Io da anni cerco di invitare al non utilizzo della parola lager per parlare dei centri di detenzione in Libia. Questo mi sembra più interessante della prima dimensione. Usare parole come lager o metodi nazisti rivela una nostra debolezza. L’’idea che quell’orrore lì non sia abbastanza orrore e, dunque, richieda un’associazione con il peggior dramma prodotto dalla nostra cultura, ovvero la Shoah.

Ma non è automatico utilizzare il potente dispositivo dell’analogia in questi casi?

Sì, ma l’analogia segnala una debolezza intellettuale, cognitiva. È come se guardassimo l’orrore, vorremmo esprime qualcosa, ma poi ci ripensiamo credendo che non sia sufficiente, non basti. Io, invece, credo sia sufficiente e bisognerebbe lavorare affinché ci basti quest’orrore che viviamo. Distinguere è la nostra missione, è il nostro tratto distintivo: distinguere, non omologare. La formula “taxi del mare”, invece, è stata una delle espressioni più perniciose mai utilizzate prima, assimilabile agli “abbronzati” o “palestrati” di Salvini. Quelle parole, nel profondo, hanno avuto un effetto degradante perchè hanno aggredito la dignità dell’uomo. 

Qualche giorno fa, ricordando i fatti del G8 di Genova, scriveva su Repubblica che il processo di democratizzazione delle forze dell’ordine è lento, lentissimo. Il giorno dopo abbiamo letto le cronache da Piacenza con la certezza che, oltre ad alcune mele marce, ci sia anche un cestino infetto. Secondo gli inquirenti, fra le tante violazioni, ci sarebbero stati pestaggi e arresti sfrontati contro alcuni stranieri. L’identità etnica, in queste storie di abusi, è un’aggravante?

Il 90% dei casi di abusi di polizia di cui mi sono occupato riguardavano italiani. La vittima scelta, il bersaglio, deve presentare un connotato sociale di fragilità. Infatti, le vittime sono giovani o giovanissimi, persone che hanno problemi con le dipendenze, oppure persone emarginate o in fase di emarginazione. Il soggetto privilegiato dell’abuso di polizia è quello. L’identità etnica si aggiunge e fa precipitare la situazione. Non c’è il minimo dubbio che l’aggressore formuli una gerarchia della vittima, e non c’è dubbio che una vittima straniera abbia sicuramente minore tutela di una vittima italiana, anche se vulnerabile. La vittima italiana, nonostante tutto, dispone di solito di una rete familiare, parentale o amicale che può proteggerlo. Alla vittima straniera questa rete manca. Il caso di Stefano Cucchi ci ha fatto comprendere quanto sia stato importante, sfortunatamente dopo la sua morte, avere una rete di protezione. Il fattore etnico, effettivamente, è precipitante, aggiuntivo e rovinoso perchè all’immagine della vittima aggiunge un ulteriore connotato di vulnerabilità.

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