«Tratto l’adolescenza, e i personaggi che la vivono, con rispetto, senza accondiscendenza e paternalismi». Ivan Cotroneo e il successo de “La compagnia del Cigno”

by Niccolo Bellon

Mentre scrivo a Ivan Cotroneo penso al finale di “Stand by Me”. Quel film di Rob Reiner, di fine anni Ottanta, quello con River Phoenix giovanissimo, biondissimo, quello sui quattro amici di Castle Rock che si mettono alla ricerca del corpo di un ragazzo scomparso giorni prima. Ecco, si ricordi di quello l’ultima battuta pronunciata da uno dei protagonisti, ormai uomo, padre, scrittore: “Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni. Gesù, ma chi li ha?”.

Ha scritto, tra gli altri, per Ferzan Ozpetek (“Mine Vaganti”), Luca Guadagnino (“Io sono l’amore”), Daniele Luchetti (“Dillo con parole mie”) e Maria Sole Tognazzi (“L’uomo che ama”, “Viaggio sola”, “Io e lei”). Ha pubblicato sette romanzi, due di questi trasposti in film di cui ha firmato regia e sceneggiatura (“La kryptonite nella borsa”, “Un bacio”). Ha tradotto Hanif Kureishi e Michael Cunningham, e adattato per il teatro un testo di Bret Easton Ellis. È ideatore delle fiction di successo: Tutti pazzi per amore, Una grande famiglia, È arrivata la felicità e La compagnia del cigno – la seconda stagione è ora in onda su Rai 1, nella prima serata della domenica.

Archiviato il curriculum, si analizzi l’uomo.

Dicono che il viso sereno di ogni ragazzo, di ogni ragazza, celi un’ossessione, e ch’essa perpetuamente influenzi il loro agire, scrivere, pensare. Penso a generazioni di scrittrici e scrittori e i temi che da sempre tornano in letteratura: il parricidio, la maternità, la crescita, la resistenza, il conflitto. Penso all’ossessione che potrebbe aver accompagnato il lavoro di Cotroneo, e ritorno al finale di “Stand by Me”, a quella battuta.

Studia da avvocato. Oggi è sceneggiatore, scrittore, traduttore, regista, autore televisivo. Com’è successo?

Per emergenza. Quando stavo per laurearmi, parlavo con i miei amici e compagni di studio che non vedevano l’ora di diventare avvocati, magistrati, notai. Ho capito con terrore che non era la vita che immaginavo.

Cosa voleva fare?

Raccontare storie. Era la cosa che mi piaceva di più al mondo, da quando ero piccolo. Così ho provato a entrare al Centro sperimentale di cinematografia, mi hanno preso, e da lì è cambiato tutto.

Cioè?

Sono riuscito a fare della cosa che mi piace di più al mondo il mio lavoro. Ed è un privilegio, una fortuna: una cosa per cui vale la pena combattere. Quando mi capita di parlare con i ragazzi e le ragazze nelle scuole, alle proiezioni, alle presentazioni dei libri, cerco di passare questa idea. La ricerca del denaro, della popolarità a tutti costi non sono valori. Per me l’unico valore importante, il metro della propria realizzazione personale è cercare di fare quello che ti piace, anche quando non piace agli altri. L’idea di felicità è personale, non può essere imposta.

Si è distinto, tra gli altri, per l’innegabile capacità di raccontare l’età difficile dell’adolescenza, in cui tutto accade per la prima volta. Come si fa?

Non lo so. Soprattutto se lo si fa come me, da adulti. Ma mi sono dato due guide. La prima è di non dimenticare mai come sono stato io a quell’età, e come, quando tutto accadeva per la prima volta, ogni sentimento fosse amplificato: quell’assolutezza che accompagna le prime volte, la certezza che niente sarà mai più così, e la sicurezza, in quel momento, che non c’è un futuro emotivo, ma solo il qui e ora.

La seconda?

Trattare quel tempo, e i personaggi che lo vivono, con rispetto, senza accondiscendenza e senza paternalismi.

Ora, prendiamo i ragazzi de “La compagnia del Cigno”. In questa seconda stagione stanno crescendo. Cosa perdiamo quando diventiamo grandi?

Perdiamo tutto, e tutto si trasforma e diventa altro.

Nulla sembra sopravvivere al massacro del tempo.

Una parte di noi rimane quell’adolescente: felice, infelice, inserito, emarginato, solo o confortato dagli amici. Una scia di quel periodo irripetibile ci rimane dentro, una traccia di quello che siamo stati, che sia l’idea della prima gioia assoluta, o del primo dolore da cui sembra di non poter riemergere, rimanga in tutti.

Hildegard De Stefano (la Sara della serie) scrive di lei: “Come ogni artista, come ogni sognatore c’è in lui molto di un bambino”. Chi è il bambino che si porta dietro?

È il bambino con gli occhiali del mio primo romanzo (La kryptonite nella borsa, ed. Bompiani) un po’ buffo, abbastanza solo, talvolta isolato e in alcuni casi messo all’angolo, desideroso di avere degli amici tanto da inventarsene uno, alla fine capace di salvarsi con la fantasia e con l’ironia.

Penso ai bambini di “Anna”, la nuova bella serie di Niccolò Ammaniti. Unici sopravvissuti a un’epidemia malvagia, a loro il compito d’occuparsi della Terra. È nelle mani dei giovani d’oggi il domani?

Sicuramente sì. E questa è una fortuna, perché i ragazzi che ho incontrato e incontro sono migliori del mondo in cui noi adulti li facciamo vivere. Sono loro, proprio in senso anagrafico, il futuro. Se non ci mettiamo d’impegno, come però stiamo facendo, a rovinarglielo, a complicargli la vita, a mostrargli un mondo non inclusivo, sessista, omotransfobico, disinteressato al futuro.

Ecco, facciamo un passo indietro. È il 2010, scrive “Un bacio” (da cui verrà tratto l’omonimo film da lui diretto). Parla di giovani, omofobia, bullismo, diversità, amore. Oggi, undici anni più tardi, il ddl Zan ancora dev’essere approvato. Cosa ne pensa?

Una delle urgenze che mi hanno spinto a scrivere quel libro è stata proprio la mancata approvazione di una legge, quella Concia, sulla stessa emergenza. Da allora sono stati stesi e poi mai approvati diversi disegni di legge. È impossibile da pensare che nel nostro paese nei reati di odio non sia inclusa la aggravante omotransfobica. Se non si approva questa legge, io penso sia un fortissimo segnale di disinteresse da parte del governo nei confronti della violenza che viene esercitata ogni giorno contro persone innocenti che non hanno alcuna colpa se non quella di voler vivere liberamente il proprio orientamento sessuale o comportarsi in conformità con la loro identità di genere.

Torniamo ai giovani.

Sono una generazione libera che vive purtroppo in un mondo in cui comandano adulti pieni di schemi, di pregiudizi, avidi e incapaci di pensare agli altri e al loro futuro. Quindi fanno fatica. Ma ce la faranno.

Perdoni la citazione. Ha mai più avuto un amico come quello che aveva a 12 anni?

No. Non ‘come’, non con quella assolutezza. Non ho nemmeno avuto amici ‘come’ quelli che avevo a sedici anni, al liceo. Per fortuna sono ancora nella mia vita. Dopo ho avuto altri amici, diversamente importanti. Anche loro sono una fortuna, sono le persone che incontri quando la tua idea del mondo si è formata, e sono la forza grazie alla quale attraversi la vita. Ma quel senso di assoluto non c’è più.

E cosa c’è?

Altre cose, diversamente importanti, altrettanto belle e altrettanto necessarie. Ma mai più le stesse.

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