«Ogni cammino è anche un po’ un pellegrinaggio». Tra frugalità e fratellanza, Antonio Polito traccia il passo e le regole del tempo che ci attende

by Antonella Soccio

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.

Cesare Pavese, La luna e i falò

Dall’impotenza appresa col Covid, quando ognuno di noi ha sperimentato il confinamento e la soppressione della libertà desiderante di colpo limitata fisicamente dal rischio contagio, alla necessità urgente di muoversi, camminando, per ritrovare un respiro interiore ed un incedere fisico. Da viandante.

Le regole del cammino. In viaggio verso il tempo che ci attende” di Antonio Polito edito da Marsilio, finalista del Premio I fiori blu e di recente vincitore del Premio Benedetto Croce, usa la metafora del cammino per raccontare la piccola Italia dell’Appennino, dei Santi e dei borghi, solo apparentemente minore, senza la quale la nazione non riuscirà a riemergere dalla decadenza in cui è sprofondata da almeno tre decenni.

“Abbiamo dimenticato che siamo nati per camminare, perché è solo così che sappiamo stare al mondo”, scrive Polito nel suo affascinante diario di viaggio lungo il Cammino di San Benedetto, da Norcia a Montecassino, alla ricerca dei valori dell’Europa cristiana.

Noi di bonculture abbiamo intervistato lo scrittore e grande giornalista.

Polito, chi si mette in cammino cerca spesso una trascendenza perduta nel vivere quotidiano. Eppure, come lei racconta nel suo libro, non è detto che i passi e la fatica facciano accogliere questa esperienza semi mistica. Spesso lungo il cammino si è distratti da altro.

Crede che la pandemia abbia acceso questa esigenza di trascendenza e di passo lento o che ci condurrà verso una definitiva secolarizzazione?

Io penso che ogni cammino sia un po’ anche un pellegrinaggio. Chi si mette in cammino avendo una meta, essendo diretto verso una meta, sta cercando qualcosa. Una cosa è passeggiare, andarsi a fare una camminata, altra cosa invece fare un cammino. La differenza consiste esattamente nella meta. Cercare una meta è sempre una forma di pellegrinaggio, perché questa meta può essere esistenziale, spirituale, religiosa, ma anche semplicemente un’esigenza vitalistica. Molte persone dopo il lockdown si sono incamminate semplicemente per sentirsi vive, per stare all’aria aperta, per sentire l’affanno come un segno di salute e non di sofferenza. Il cammino è una esperienza che trascende la realtà, va oltre la realtà. Ecco il senso del pellegrinaggio: ognuno che si mette in cammino è un pellegrino, perché cerca di trascendere la propria condizione. La maggiore trascendenza della nostra cultura è credere in un essere superiore, che è una riflessione, che anche per un non credente, durante il cammino si accende, come racconto. L’osservazione della natura nella sua ciclicità, nella sua inesorabilità, nella sua bellezza, nella sua rapidità e anche del suo capriccio è una esperienza che richiama e fa riflettere sulla esistenza di un Dio. Non saprei dire se la società che ne verrà fuori sarà più o meno secolarizzata, io penso che l’esperienza della pandemia abbia acceso delle domande ultime, delle domande sul senso e sulla destinazione del nostro andare. E se questo non è avvenuto sotto forma di ricerca religiosa quanto meno si è concretizzato sotto forma di esperienza esistenziale.

Psicologica?

Sì, psicologica.

Nel suo libro, si ferma molto sul senso del cammini dei Santi. San Benedetto, San Francesco, ma anche la via michaelica, le Vie Francigene e sul profondo senso di mistero che emanano. Crede che con Papa Francesco, che i laici amano tanto, si stia perdendo un po’ del mistero del cristianesimo?

Io faccio un raffronto fra le due vie della Chiesa possibili, che sono interpretate nella storia nella via di Benedetto e nella via di Francesco, che manco a farlo apposta sono i nomi che si sono scelti gli ultimi due papi, evidentemente se li hanno scelti una ragione c’è. Nel cammino che io ho fatto, il cosiddetto cammino di San Benedetto, un punto si incrocia con quello di San Francesco- soprattutto in Umbria battono le stesse zone- e addirittura si intreccia fisicamente al Sacro Speco sul Monte Subiaco dove Benedetto pregava nella grotta prima di dare vita all’ordine monastico e dove arrivò poi secoli dopo un Francesco non ancora Santo, tanto è vero che è raffigurato negli affreschi con una iconografia abbastanza inusuale per noi. Non ha l’aureola né le stimmate, ma è un fraticello a grandezza naturale, circa di un metro e cinquanta. Non c’è cristiano nel Medioevo che non era devoto di San Benedetto, che è il fondatore della Cristianità medievale.

Due vie, Francesco e Benedetto: Francesco è la via dell’ospedale da campo. Francesco abbandonò i monasteri dell’ascesi, per astrarsi da mondo, e fece i conventi. Convento è una parola dal significato etimologico opposto a monastero: monastero viene da monade, dalla radice greca monos, solo, mentre convento è convenire. Mentre i monaci sono monaci, i frati sono frati, ossia fratelli. La differenza è radicale: i francescani vanno in mezzo alla gente per organizzarla, per aiutarla, i Monti di Pietà sono una invenzione francescana; i benedettini si isolano dal mondo, ma non come i vecchi asceti, ma dimostrando che la Cristianità sarebbe riuscita a vivere anche nel Medioevo barbaro.

Sono due vie molto diverse. Molti in America sostengono che oggi la Chiesa dovrebbe seguire la via di Benedetto. Siccome il mondo oggi è secolarizzato, fatto di miscredenti e di peccato, bisogna che la Chiesa sopravviva a questa fase, chiudendosi nei monasteri e aspettando, rinsaldandosi in attesa di una nuova fase. Questa è la opzione Benedetto. Mentre la opzione Francesco è quella del soccorso. Sono due vie diverse, che dovrebbero integrarsi, ovviamente. La prima è quella che mantiene il senso del mistero e della trascendenza, la seconda è più radicata nell’umanità. Io non mi azzardo a dire quale sia la migliore.

Lei nel libro sceglie di astenersi dal giudizio.

Sì, ma è interessante. Nel percorso abbiamo incontrato un esponente abbastanza sui generis dell’opzione Benedetto nell’Abbazia di Trivulzi, che rifiuta il mondo moderno e lo combatte.

Nel libro parla molto dell’Osso d’Italia, secondo la definizione di Rossi Doria. L’Italia appenninica, ma anche quella montuosa come il Gargano, la Murgia, Matera col Cammino Materano…

Io l’ho fatto il Cammino Materano

Sta avendo molto successo…

Sì sì.

L’Italia interna che si spopola e che ha zone economicamente marginali sta puntando molto sui cammini. Non solo Santi o le francigene, ci sono i cammini del Cai, quelli della transumanza e tutto l’investimento sulla ciclabilità. Queste zone possono trovare una nuova vitalità grazie allo stile di vita lento, grazie a questo tipo di turismo, alla ricerca di Dio o di salute?

Sì, è curiosa come cosa. La diffusione di questo tipo di turismo, di hobby, di modo di viaggiare, insieme ai cammini in bici o a cavallo, in generale tutte le attività dell’andare lentamente sono l’ideale per richiamare l’attenzione su una parte cruciale del patrimonio italiano, sia culturale sia di capitale umano per indurci a utilizzarlo, a sfruttarlo e a non lasciarlo abbandonato. Un po’ per l’ovvia ragione che ci portano in paesi di cui conoscevamo solo l’esistenza, ma non avevamo mai visto e un po’ perché ci fa vedere che centralità questi luoghi hanno avuto nella storia d’Europa. Per un paio di secoli l’Italia comunale è stata il punto più avanzato della storia europea, è durato circa due secoli, fino al Seicento, quando comincia il grande declino italiano che durerà fino alla seconda metà del Novecento, fino alla fine della seconda guerra mondiale. Curiosamente in questi posti il declino si legge dal Seicento in poi: prima trovi le opere d’arte, le Cattedrali, i monasteri.

Il Barocco è spesso l’ultimo baluardo artistico nei piccoli paesi.

Esatto, poi iniziano i segni della decadenza, moltiplicati oggi dalla spopolamento, dalla decadenza demografica. Nel mio libro che è una metafora su come dovremmo rimetterci in cammino come collettivo, come Italia, dopo la pandemia, mi domando se una delle azioni da fare non sarebbe quella di rimettere in funzione questo capitale di risorse umane, culturali e anche naturali collegandolo al resto d’Europa.

È giusto allora secondo lei che una parte consistente del Recovery Plan sia speso nell’Italia interna e in particolare nel Mezzogiorno per grandi arterie stradali, per infrastrutture?

Sì, dobbiamo chiederci: se io sto in un paesino del Materano sono un europeo di serie B o C? Sono un isolato rispetto al resto del mondo? Sono uno sfigato rispetto ad un mio coetaneo che vive a Milano? Se sì, sarà abbastanza difficile trattenere le persone, perché ci sarà sempre una quota di cittadini che vorrà avere successo, realizzarsi e se ne andrà. Ma se invece do la possibilità a questi luoghi- e oggi tecnologicamente questa possibilità esiste perché possiamo lavorare con un’azienda di Los Angeles e fare riunioni in zoom col South Working– se rendiamo questi posti raggiungibili, con reti, cablature e il Recovery Plan punta anche a questo, se riusciamo a fare questo salto, rimettiamo in circolo un pezzo d’Italia essenziale, consentendo anche alle persone di vivere meglio, di continuare a produrre, divertirsi ed essere in connessione col mondo, però vivendo meglio e consumando meglio.

Lei si concentra molto sulla frugalità e sulle regole di San Benedetto. Mi ha fatto venire in mente l’uso dei social. Le star del nostro tempo sono gli influncer che sono tutto meno che frugali, così impegnate continuamente ad ostentare oggetti, marchi di lusso, luoghi instagrammabili, in un perenne consumismo interscambiabile. Come si coniuga la ricerca di semplicità nata dall’esperienza della pandemia con il mondo dell’immagine del tutto estraneo alla frugalità?

Io metto abbastanza in chiaro, spero, nel libro che per me frugale non significa mangiare poco né rinunciare alle cose belle della vita. È questa una accezione che è prevalsa, ma che non è corretta. Frugale era lo spirito iniziale del capitalismo del Nord Europa. Mentre i mercanti rinascimentali trasformavano in beni di lusso tutta la loro ricchezza e facevano magnifici palazzi, arredi, arazzi, dipinti, i capitalisti olandesi reinvestirono i loro guadagni nelle loro attività, trovarono un modo automatico, meccanico di produrre ricchezza con un grande vantaggio per tutti. Era una soluzione egualitaria perché la ricchezza che si produceva ricadeva su una fetta di popolazione più ampia. I capitalisti del Nord erano molto più collettivisti dei cardinali romani. Questo è la frugalità: utilizzare le risorse che riusciamo a produrre per un interesse più generale e non per soddisfare il consumismo privato, arrivato ormai ad un punto di saturazione. Non c’è molto più da comprare per stare al passo con la famiglia dei vicini di casa e quindi nascono bisogni immateriali, che ci propongono gli influencer, i quali riempiono di pubblicità occulta la rete con i brand.

Ci sono tanti studi sul paesaggio cartolina, il paesaggio location, che si volgarizza e perde autenticità…

Sì, tutto diventa brandizzabile. Faccio un esempio banalissimo: lungo il cammino abbiamo incrociato il laghetto di San Benedetto che è un piccolo lago, molto suggestivo, con acqua fresca, che sta sotto il Subiaco, sotto il Monastero e dove il Santo fece miracoli. Era un posto dimenticato da Dio e dagli uomini. Ad un certo punto durante una ricognizione sui luoghi belli del Lazio, un influencer o forse un giornalista ribattezzò il laghetto come i Caraibi di Roma e da quel momento il laghetto ogni fine settimana è affollato di turisti, con la gente in fila, creando forti disagi e inquinamento. Tutto è brandizzabile, sono bisogni indotti: è l’offerta di beni di consumo che produce bisogni. Gli influncer sono le ancelle, i portavoce dell’industria che li usa. Io dico che dovremmo utilizzare le risorse, poche, che abbiamo negli ultimi anni, per un benessere collettivo. Siamo il Paese in Europa col maggior numero di telefonini pro capite, però durante la didattica a distanza il 25% dei nostri figli non aveva né il device, né la rete, la connessione per poter fare la Dad. Sembra una contraddizione: tutti col telefonino ma pochi col pc per studiare. Ma questa è l’Italia, un Paese che ha privilegiato il consumo individuale al benessere collettivo, alla crescita comune.

Se posso mi piacerebbe rivolgerle una domanda sul giornalismo. Riprendendo e capovolgendo Nietzsche, lei sostiene che con la pandemia finalmente i fatti esistono, non ci sono più solo le interpretazioni. Oggi il giornalismo è tornato a seguire i fatti? Li aveva abbandonati? Qual è la lezione della pandemia al giornalismo?

Mah… La pandemia è stata per tutti una lezione di umiltà, non solo per i giornali. Lo è stata per tutti, per gli storici, per gli stessi scienziati. Onestamente nessun campo della vita collettiva è uguale a prima della pandemia, che non è ancora finita. Penso che anche i media abbiano avuto un grande choc, a cui hanno risposto facendo venire fuori da un lato con maggiore nettezza la loro essenzialità , non c’è niente come una catastrofe naturale durante la quale il pubblico chiede e ha bisogno di informazioni, il più possibile veritiere, garantite, certificate, frutto di un lavoro di ricerca e non di mera improvvisazione. Da un lato l’informazione è diventata molto importante e questo accade sempre nei momenti in cui la gente è spaventata. Dall’altro lato una parte dei media si è infilata nello spazio, che questa stessa ansia ha aperto, della superstizione, del millenarismo diffondendo informazioni suggestive, ma non verificate per sobillare l’aspetto peggiore della credulità popolare. A mio modo di vedere ne è venuta rafforzata l’idea di mantenere un sistema di media autorevoli, attendibili e che per essere tali devono essere delle organizzazioni che fanno profitto. È impossibile avere un giornale serio se non ha la possibilità di remunerare un giornalista che ogni giorno non faccia altro che parlare con dei virologi.

Viviamo nell’epoca dell’immagine e siamo convinti che se vediamo una cosa non può che essere vera, invece la parola, l’idea, la conversazione possono essere manipolate o manipolabili, ma anche le immagini danno una visione parziale della realtà.

Sul finale cita il libro di Anna Banti, Noi credevamo. C’è stato un tempo in cui l’Italia aveva fiducia, credeva nel suo futuro, nel proprio destino di patria. Ritiene che sia questo un momento in cui l’Italia può ritrovare fede e fiducia? Può bastare un premier di così grande prestigio internazionale come Mario Draghi per riaccendere le speranze o siamo già in una fase di caos?

Io sono ancora ottimista, c’è ancora un obiettivo comune, collettivo. Intuiamo ancora che ci salviamo tutti insieme oppure no. La pandemia è stata una grande lezione: quando tu capisci che i tuoi comportamenti virtuosi possono salvare te e il vicino, quando si vede una tale interdipendenza viene da pensare quasi all’enciclica di Francesco, Fratelli tutti, siamo legati da un destino comune. Per come si è organizzato il mondo siamo legati da un destino comune anche al di là dei confini nazionali, lo stiamo osservando con la variante Delta. La consapevolezza che siamo legati l’uno con l’altro è veramente diversa rispetto al passato. Io penso che questo sentimento in Italia ci sia ancora e che questo sia l’elemento che sostiene il Governo di unità nazionale, cioè di unirsi per fronteggiare questa fase.

Quale sarà il suo prossimo cammino?

Comincio a settembre un progetto. Vorrei fare dividendolo in alcuni periodi, percorrerò la Via Francigena dal Gran San Bernardo fino a Roma. Sono 1000 km, poi deciderò come dividerli.

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