“È tardi!” di Eduardo Savarese e le sette storie di attesa e successo delle eroine della lirica

by redazione

La musica è l’arte del tempo e il canto è una maniera umanissima di abitarlo. Il tempo dell’attesa, in particolare, e la sua narrazione, sono al centro del nuovo libro di Eduardo Savarese, “È tardi!”, in uscita per Wojtek Edizioni il 13 settembre. L’autore napoletano – magistrato e già autore di “Non passare il sangue” (E/O) e “Le cose di prima” (Minimum Fax) – muovendosi tra le forme del memoir e della narrazione storica, racconta sette esperienze di attesa di altrettante eroine dell’opera lirica, reinterpretando i libretti di grandi classici del genere a partire dal punto di vista, delicato e potente, delle donne.

Savarese ci porta a scoprire un mondo che non smette di affascinare, quello dell’opera, attraverso le vite di sette donne che amano, sperano, soffrono e attendono che il loro destino si compia, e le cui vicende finiscono per mescolarsi a quelle dell’autore in un dialogo intimo e appassionato. Il filo comune è la graduale consapevolezza che ogni attesa coincide con la paura e il desiderio, quelle del narratore, delle sue eroine e di tutti noi, che sia davvero troppo tardi. bonculture anticipa un estratto del libro.

Il commento di mia madre, giunti a questo punto, è sempre lo stesso: «Per certe frasi, ci vuole solo Maria Callas». E a noi, a me e a lei, discendenti di una donna greca, evocare il nome del grande soprano greco-americano fa sempre un certo effetto compiaciuto, come se fossimo suoi affini.

È tardi!” è una frase breve e semplice costituita da un verbo, un avverbio e un punto esclamativo. Ci serve per sollecitare i nostri familiari quando occorre affrettarsi a un appuntamento importante (la cena di Natale, un matrimonio o un funerale); suona come un rimprovero a noi stessi o ad altri se ci attende una scadenza lavorativa e i giorni si fanno insufficienti; lo pensiamo con nervosismo se siamo in ritardo per un impegno o aspettiamo qualcuno che fatica a essere puntuale; talvolta è una constatazione sorpresa quando, alla fine di una piacevole serata tra amici attorno a una tavola imbandita con cura dove sono passati cibi e vini buoni, si getta lo sguardo all’orologio e si scopre che le ore sono scivolate leggere come il foulard di una donna affascinante.

Nell’uso quotidiano è il tempo che, a volte con simpatia, altre con un’antipatia persino arcigna, arriva a fischiare la fine della partita concedendo, tutt’al più, qualche minuto di recupero. A noi restano lo sgomento di assistere a un altro pezzo di vita che se ne va e una paura remota, quella di aver sprecato troppo tempo in faccende inutili.

Nel teatro lirico questa semplice frase prorompe all’ennesima potenza dalle bocche di eroine che portano su di sé un pesante carico di dolore e angoscia. Scomparse le accezioni ordinarie, “È tardi!” assume la consistenza del grido, sospinto dalla lucida cupezza dell’occhio che impara a dichiarare che non c’è più tempo, non ci sono più partite da giocare, strategie da definire, relazioni da recuperare, memorie da custodire. L’angoscia trova queste due parole, un verbo e un avverbio, per segnare sul terreno della vita i confini del prima e del dopo: per guardare il superamento del confine del dopo, l’impossibilità di ripercorrere all’indietro il tratto attraversato.

È tardi, e non c’è più il tempo per fare presto; non c’è più il modo di tornare all’ordine precedente. È tardi: l’entropia è drammaticamente, potentemente aumentata e ancora aumenterà. L’esclamazione è tanto più struggente, tanto più immersa in un ardore violento, in una specie di ferocia trattenuta, quanto più lungo, costante e intenso, sino a essere addirittura spasmodico, è stato il tempo dell’attesa. Un tempo in cui tutte le forze si sono concentrate nei recessi profondi dell’interiorità di chi aspetta, per nutrire il convincimento che il giorno della pienezza, della gioia, della verità e della giustizia arriverà, mettendo in scacco le parole e le espressioni di scoraggiamento, gli inviti a guardare cinicamente in faccia la realtà per gettare la spugna, le spalle alzate che liquidano la speranza dell’attesa come la più sciocca e dannosa delle illusioni.

Questo tempo di attesa, nutrito contro ogni ragionevole calcolo del mondo, della storia e della società, contro il rigore ottuso del potere, persino contro chi pretende di volerci del bene, è la potente virtù che le donne del melodramma hanno imparato a proteggere e praticare. La storia del teatro lirico è attraversata da donne che sperano, che amano, che credono, attendendo, cioè tendendo al compimento del loro destino. Ma queste eroine protagoniste di appassionate tragedie liriche, e talvolta di commedie, sono in grado di tramutare l’amarezza della sconfitta in una luce più potente, a volte calda e avvolgente, altre volte persino sinistra, però sempre vera, perché proprio loro hanno saputo farsi forti nel tempo dell’attesa. E solo loro hanno l’abilità di dirci, con le lacrime agli occhi o nella voce, che, dolorosamente, forse ingiustamente, il tempo ha passato la linea di confine dell’irreversibile. A proclamare chiaro e tondo che è tardi: donandoci il privilegio di commuoverci insieme con loro ripensando ai fiumi di ore trascorse irrimediabilmente per tutti noi, e alla pienezza, sfuggente in un modo quasi disperato, del tempo abitato dalle attese più intime e invincibili. Quest’immersione in sette storie di donne liriche richiede un buon allenamento di apnea, perché il tempo dell’attesa è anche un tempo sospeso, dove si vive sulle soglie dell’esperienza col fiato trattenuto, e l’arma di resistere aspettando si rivela decisiva per spuntarla sulla protervia del destino. Le tappe che segnano l’inizio e la fine del viaggio sono due esclamazioni apparentemente uguali, eppure molto differenti, per significato e contesto: il primo “È tardi!” è pronunciato nella Traviata da Violetta Valery, il secondo è quello scolpito dall’indignazione di Norma che tanto rinvigorisce il sangue nelle vene di mia madre. Entrambi hanno a che vedere con l’amore, quello confermato da Alfredo a Violetta e quello tradito, ma infine riscoperto, da Pollione per Norma. Violetta, sul suo letto di malata terminale, attende che Alfredo, dopo una profonda crisi, faccia ritorno a lei. Norma, che ha sperato che Pollione comprendesse la forza del suo amore, attende ora soltanto la consumazione della vendetta, che si tramuterà invece nell’ultimo atto della loro relazione: la morte insieme. Entrambe attendono l’amore, a entrambe arriva la morte. Tutte e due hanno atteso di vincere la scommessa contro le strettoie di destini scritti con negligente faciloneria da mani altrui: quella di preservare la dignità innumerabile di un amore che le circostanze tramarono per ridurre allo svilimento e alla mortificazione. Seppure all’apparenza piegate, Violetta e Norma questa scommessa l’hanno vinta. E con loro l’hanno vinta le altre cinque protagoniste delle storie che ho deciso di raccontare qui, dalla Contessa mozartiana a Cio-Cio-San, da Carmen a Lucia sino a Elettra.

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