“Per essere Chiari” di Antiniska Pozzi: il pugilato è una metafora per un uomo in lotta coi propri demoni

by redazione

Un quadrato di pietra e il cielo sopra. Nessuna voce, solo il rumore dei colpi che fendono l’aria: la lingua è quella del corpo, i corpi sono quelli dei detenuti. Dal carcere al ring e poi di nuovo al carcere, quella del pugile Mirko Chiari è una storia difficile ma intrigante che la penna finissima di Antiniska Pozzi raccoglie nel romanzo “Per essere Chiari”, pubblicato da Milieu Edizioni e in uscita il prossimo 13 maggio.

La periferia di Milano, i furti, l’arresto e il carcere. Una sorta di inadeguatezza, un “atomo irriducibile” agita Chiari sin da bambino: soltanto con il pugilato è riuscito ad “addomesticarlo”. Al centro della storia, la figura complessa di un uomo in lotta coi propri demoni, che attraverso la box si scopre e si redime. Il pugilato diventa per lui metafora, scuola di vita, consapevolezza.

La prima volta, la seconda prima volta che sono entrato in carcere, ero da solo. È stato nel 2016. Con me avevo solo qualche certezza acquisita durante molte occasioni di insegnamento negli anni precedenti, collaborazioni con cooperative supportate dalle istituzioni locali e operanti in zone periferiche con criticità. Una delle numerose “palestre” in cui mi sono allenato. Il principio d’insegnamento è sempre lo stesso, testato nei seminari, usato più volte nelle occasioni di formazione: riscaldamento iniziale e poi tecniche a coppia, di volta in volta su un passaggio ben determinato, il colpo singolo, il bloccaggio… Quasi mai conosco chi ho di fronte, e così ho modo attraverso un gesto semplice di esaminare una serie di fattori: chi ha paura, chi è arrogante, chi è venuto perché vuole davvero metterci qualcosa dentro. È una fase conoscitiva, attraverso la pratica, serve a prendere le misure. Anche in senso fisico: se vedo che un gigante di cento chili è invasivo nei confronti del compagno, lo metto in coppia con qualcuno del suo peso. Non è difficile: nella boxe non puoi mentire, si vede tutto. E il lavoro da fare va tutto nella direzione dell’onestà, nel gesto tecnico del pugilato vai a eliminare un sacco di impurità, di scuse, di impalcature mentali. Quello che rimane è l’essenza della persona.

La prima volta l’impatto è stato forte, anche se la guardia era alta, come sempre, le prove che ho dovuto sostenere mi si sono presentate al massimo di quello che potevano essere. Ho superato l’ingresso, passato i controlli — mi avevano dato un tesserino per entrare e uscire —, ho camminato lungo i corridoi, sono arrivato nella piccola palestra, ci sono entrato. È come quando sali sul quadrato, ormai sei lì, l’avversario è davanti e non puoi scendere finché non hai finito, vinta o persa che sia.

Ricordo i loro volti. C’era tutto un battaglione romeno, un tale chiamato Claudio era alto un metro e ottantadue, pesava centoventi chili; Adi ne pesava solo centodieci, poi c’era Tonio, testa rasata che diventava collo senza soluzione di continuità; erano tutti del Primo Reparto. C’erano poi alcuni ragazzi arabi, tutta gente grossa con molti anni di galera, scontati e da scontare. Erano venuti per curiosità, certo non erano pugili ma coi pugni avevano familiarità.

La prima volta ho avvertito che mancava qualcosa. O forse qualcosa era di troppo, il famoso elefante bianco nella stanza. Tutti palesavano rispetto e gratitudine per la novità e l’opportunità, ma c’era un non detto. Volevano sapere perché ero lì. Ma non sapevano come chiederlo, forse non osavano. Perché ero lì? E come pretendevo di insegnare la boxe a loro, che in materia di pugni erano piuttosto competenti? In carcere ci sono stato anche io, sebbene la mia esperienza sia stata fulminea — questo gli ho detto — e voglio restituire alla boxe quello che mi ha dato in tanti anni di esercizio. Hanno annuito ma non hanno capito subito. Ci è voluto del tempo perché mi conoscessero, perché si fidassero. Poi, dopo, hanno compreso che non era un semplice corso, ma un percorso di pugilato, nel pugilato. L’hanno capito col tempo, e con l’unico altro mezzo che avevo a disposizione per accorciare la distanza fra noi: i pugni. Per avere il loro rispetto come persona dovevo prima avere il loro rispetto come sportivo, per impattare sulle loro menti dovevo impattare prima sui loro corpi.

Esserci, innanzitutto: per fidarti di qualcuno devi sapere che non ti abbandona da un momento all’altro, soprattutto in un contesto come quello in cui un uomo è abbandonato per definizione, separato dalla società civile, privato dei privilegi e degli obblighi che essa comporta.

Bisognava picchiare e farsi picchiare: non valgo di meno perché prendo le botte da uno che è stato in galera per dieci anni. Sembrerà scontato, ma c’è una barriera tra il fuori e il dentro, non è solo una barriera fisica, e loro lo sanno, la sentono. La barriera mentale andava abbattuta, dopo i primi scambi è arrivata la volta in cui ce le davamo a vicenda col sorriso e non ero più quello che viene da fuori, ma quello che sa essere dentro.

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