Insegnare (e vivere) ai tempi del virus: un dialogo con Federico Bertoni

by Felice Sblendorio

Se l’Università di Cambridge proseguirà con i suoi corsi a distanza fino al 2021, anticipando tutti con una scelta netta e prudente, il futuro dell’Università italiana è ancora incerto. Dopo un primo semestre di didattica online, gli atenei si stanno preparando a una complessa fase due che dovrà integrare, se le condizioni sanitarie lo permetteranno, una modalità integrata d’insegnamento fra presenza e distanza. Ma qual è il bilancio della teledidattica utilizzata dal sistema accademico in questo periodo di lockdown? E cosa succederà se, post coronavirus, queste innovazioni nate dall’emergenza diventeranno una norma?

bonculture, per tracciare un bilancio e immaginare uno scenario possibile, ha intervistato Federico Bertoni, professore ordinario di Teoria della letteratura all’Alma Mater Studiorum di Bologna, membro della giuria dei letterati del Premio Campiello e autore di “Insegnare (e vivere) ai tempi del virus”, una breve riflessione sull’esperienza di questi mesi e sul futuro della didattica universitaria pubblicata da nottetempo nella collana Semi, la raccolta di e-book gratuiti sulle principali idee, riflessioni e tematiche che il covid19 ha sviluppato.

Professore, la pandemia ha costretto l’Università a utilizzare la didattica a distanza come strumento principale di lavoro: qual è il suo bilancio?

È un bilancio sfumato, fatto di luci e ombre. Di per sé, la didattica a distanza è stata un insostituibile strumento di supplenza e di fatto l’unica alternativa al blocco totale: ci ha permesso di lavorare, di tenere i contatti con i nostri studenti e soprattutto di garantire il diritto all’istruzione. D’altra parte, mentre il lavoro aumentava in modo schiacciante, molti di noi hanno avuto la sensazione che tante energie spese con autentico spirito di servizio andassero disperse, o che addirittura venissero sfruttate per altri fini. È una sensazione poi maturata in una consapevolezza precisa, che il dibattito pubblico non smette di confermare: quello sforzo straordinario si è trasformato in un clamoroso errore politico e comunicativo, perché ha dato al governo un alibi e all’opinione pubblica una falsa impressione: cioè che scuola e università non siano un problema perché tutto, in fondo, si risolve con la didattica a distanza. Nulla di più sbagliato, come può confermare qualunque docente di ogni ordine e grado. E nulla di più beffardo quando vediamo, proprio in questi giorni, che tutte le attività stanno riaprendo tranne le scuole e le università. Non è certo una novità, ma sancire in questo modo la marginalità dell’istruzione è davvero uno strano modo di pensare al futuro, proprio quando tutti parlano di ripresa e di rilancio del Paese. Se questo è l’effetto della didattica a distanza, forse abbiamo sbagliato tutto.

Nel suo pamphlet sottolinea che questa modalità può essere accettata, dunque legittimata, solamente in una condizione d’emergenza. L’opposizione presenza-distanza non è paragonabile?

Sì, lo ribadisco con forza. La didattica a distanza è una soluzione emergenziale. Al netto della situazione sanitaria, imprevedibile anche per gli esperti, non c’è alcuna ragione al mondo per andare in questa direzione quando tutto, auspicabilmente, tornerà alla normalità. È una verità lapalissiana, che in questo periodo siamo incredibilmente costretti a ribadire: la didattica in presenza è infinitamente meglio della didattica a distanza. Non è un dato di natura o una verità metafisica, ma una prassi storica consolidata nei secoli, quella che si ripete (si ripeteva) ogni mattina nelle nostre scuole e università: un essere umano entra in un luogo fisico e mette a disposizione di una comunità la sua persona, anzi il suo corpo, per un tempo definito e una procedura più o meno ritualizzata. Tutto il resto – metodi, protocolli pedagogici, supporti tecnologici – è del tutto secondario rispetto a questa situazione di base, a questa prossemica con cui corpi in carne ed ossa interagiscono nello spazio di un’aula. Anche perché oltre i muri di quell’aula c’è un’istituzione che si chiama universitas, dunque in primo luogo una comunità, un luogo fisico e politico in cui docenti e studenti non si limitano a trasferire competenze ma mettono a confronto idee, modelli di sapere e visioni del mondo.

La preoccupazione che emerge da queste sue riflessioni, considerando il plauso per l’esperimento da settori economici e istituzionali, è che si renda praticabile questo modello anche in tempi ordinari. È uno scenario irrealizzabile, oppure potrebbe essere una toppa conveniente per le tante mancanze – economiche, d’investimento e di visione – del nostro sistema accademico?

Non è uno scenario improbabile o distopico, ma una prospettiva molto concreta. Del resto, basta guardare la nostra abituale macchina del tempo, gli Stati Uniti, dove tutto questo si sta già realizzando. È evidente che molti stanno facendo dei calcoli: trasferire stabilmente una parte delle attività didattiche del web significherà avere meno aule, meno docenti, lezioni replicabili e moltiplicabili a piacere, studenti che pagano le tasse ma che non gravano fisicamente su strutture e costi di gestione. Per non parlare degli investitori e dei provider di servizi informatici che si fregano le mani. Nel libro cito un’impressionante intervista a un manager del settore tecnologico della Goldman Sachs, secondo il quale il virus sta accelerando enormemente l’adozione della teledidattica nell’istruzione superiore, tanto che le tecnologie applicate all’educazione, finora un settore di nicchia, stanno diventando una categoria di investimento strategica.

Critica fortemente questo aspetto.

L’uso disinvolto delle piattaforme proprietarie da parte delle istituzioni pubbliche non è una questione marginale. Trovo francamente intollerabile che la scuola, l’università e tutta la pubblica amministrazione foraggino multinazionali come Microsoft o Google e cedano quote incalcolabili di dati sensibili. Servirebbe subito un investimento nazionale per dotarsi di piattaforme informatiche basate su software libero, pubblico, che escluda forme di profitto e garantisca la custodia attenta dei dati personali.

Il Ministro Manfredi ha annunciato che, a partire da settembre, ci sarà una didattica mista: studenti nelle aule e studenti a casa. Se questa idea proseguirà oltre l’emergenza, le esclusioni e le disparità sociali saranno inevitabili?

Al momento è la formula più gettonata ma a mio parere più rischiosa. La chiamano blended, con una delle tante parole magiche importate dall’inglese: soluzione mista tra didattica in presenza e didattica a distanza che promette di essere il business del futuro. Nella prossima fase verrà promossa e legittimata in nome del diritto allo studio, per compensare il calo delle immatricolazioni dovuto alla crisi economica e a eventuali nuove misure per contenere l’epidemia, così chi non è in grado di trasferirsi in una città universitaria potrà seguire le attività didattiche da casa. Ma è probabile che in un secondo momento questa formula vada a regime, offrendo una soluzione al ribasso che permetterà di non affrontare i veri problemi strutturali – ampliare le aule, costruire studentati, ridurre le tasse, aumentare le borse di studio, calmierare gli affitti che taglieggiano gli studenti fuori sede. E soprattutto sarà la definitiva pietra tombale sull’università come strumento di uguaglianza sociale, perché la modalità blended realizzerà un’automatica selezione di classe: da un lato lezioni in presenza riservate a studenti privilegiati (cioè non lavoratori, di buona famiglia, capaci di sostenere un affitto fuori sede), e dall’altro corsi online destinati a studenti confinati dietro uno schermo e nei più remoti angoli d’Italia. Per questo, credo che dovremmo rifiutarci di fare didattica blended, un pasticcio che sarà conveniente per investitori e amministratori ma non certo per lo sviluppo civile e culturale del Paese. Piuttosto, meglio continuare solo online finché le autorità sanitarie ci permetteranno di tornare tutti in aula.

Qualche anno fa lei pubblicò “Universitaly. La cultura in scatola”, un libro che raccontava una realtà universitaria sempre più legata all’efficienza, alle performance e alla produzione di conoscenze spendibili sul mercato. In questi anni, però, non ha mai dimenticato di sottolineare l’urgenza di una ricerca e di una conoscenza libera. Nell’Università moderna convivono troppe contraddizioni?

Questa è la ragione profonda per contrastare la marcia trionfale verso la didattica online. Dietro la retorica dell’innovazione tecnologica c’è infatti un progetto intimamente reazionario, semplicistico, perfettamente congeniale a un mondo accademico sempre più dominato dai valori dell’economia di mercato – competizione, attrattività, immagine, rating e ranking, quality assurance, indici di produttività, soddisfazione del cliente ecc. In questa università, ciò che conta non è la qualità sostanziale ma l’efficienza procedurale. Gli studenti non sono cittadini che reclamano il diritto al sapere ma clienti da soddisfare, consumatori di beni e servizi, acquirenti di un prodotto che dovranno vendere a loro volta sul mercato globale. E il sapere è un pacchetto, una cultura in scatola, una merce qualunque da prelevare sugli scaffali. È ovvio che in un quadro del genere la didattica a distanza può diventare lo strumento perfetto, il canale privilegiato per la televendita del sapere. Credo che nessuno stia riflettendo davvero sui rischi di questa scelta in termini di semplificazione e mercificazione della conoscenza.

Nell’assenza di relazione fisica cosa ci sta mancando dell’Università, ovvero di uno degli ultimi spazi “politici” di incontro e scontro della nostra conoscenza?

Sta mancando tutto: il dialogo, il conflitto, l’interazione umana e pedagogica con gli studenti. Chi esalta le magnifiche sorti della teledidattica e dello smart working disprezza (o boicotta consapevolmente) lo spazio politico dell’azione umana, quella facoltà di mettere in comune degli oggetti che secondo Aristotele fonda la natura dell’uomo in quanto animale politico. È un processo in atto da tempo, parallelo a una progressiva depoliticizzazione delle nostre società. Riprendo un’immagine che Don DeLillo utilizza in Libra, un sofisticato romanzo sull’omicidio Kennedy pubblicato nel 1988: “uomini in piccole stanze”: esseri umani in attesa, vittime di solitudine e frustrazione, che cercano di risarcire la loro impotenza con sogni febbrili o miraggi di azioni abortite. Il confinamento sociale imposto dalla pandemia è stato anche un gigantesco esperimento sociale, la prova generale di un nuovo stato dell’essere, un’allegoria perfetta della nostra condizione politica: uomini e donne in piccole stanze, con un arsenale di schermi sul mondo, in uno stato d’eccezione transitorio che però rischia di diventare un’illustrazione esemplare del nostro rapporto con l’esperienza e con la storia. In questo, l’agilità e l’efficienza con cui il mondo universitario si è volatilizzato rapidamente sul web mi sembrano a loro volta esemplari, raccontano una sorta di parabola sociale, descrivono un microcosmo in provetta che permette di studiare meglio il macrocosmo. Forse dovremmo riflettere bene prima di andare in questa direzione. E in generale dovremmo praticare un rapporto sano con la tecnologia; dovremmo usare le nostre protesi digitali senza perdere la capacità di muovere gli arti e di padroneggiare alcune basilari funzioni del vivere associato – la distinzione pubblico/privato, un rapporto vero con l’alterità, una gestione dei conflitti che vada oltre l’insulto pestato a sangue sulla tastiera o sullo smartphone. Per questo credo che ciò che sta avvenendo a scuola e all’università non sia confinato in un orizzonte ristretto, ma abbia una portata generale a cui prestare molta attenzione. Nel libro l’ho scritto: si parla anche di voi, cioè di noi tutti. Stiamo costruendo una forma di vita per il futuro: cerchiamo di farlo bene.

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