L’eredità dell’immensa Toni Morrison

by Paola Manno

Quando muore uno scrittore che ami, di solito ti vien voglia di rileggere le sue opere. E’ una cosa abbastanza naturale, credo, come succede quando vengono a mancare i nostri cari: aprire quell’armadio, sentire il profumo di una camicia; è come volerlo abbracciare ancora un poco. Sono moltissimi i lettori che lo fanno, e anch’io l’ho fatto, quando ho saputo che Toni Morrison si è spenta a New York, qualche giorno fa.

Ho letto la Morrison l’inverno scorso, per la prima volta, ed è stato certamente un incontro fortunato perché accaduto tardi, da adulte, un incontro che io reputo propizio perché se l’avessi letta prima, durante gli anni spensierati, prima di diventare madre, prima di questi anni politicamente pericolosi, non credo che avrei colto appieno il senso del suo dire, il peso della sua denuncia, la profondità del suo pensiero.   Amatissima è un romanzo struggente. E’ la storia di una schiava che arriva ad uccidere sua figlia perché non debba subire quello che lei ha vissuto. E’ un romanzo che racconta il ritorno di una bambina morta, di un fantasma che reclama l’amore perduto, eppure non è una storia incredibile -Incredibile è stata la realtà della schiavitù– ci ricorda Toni Morrison.

Amatissima è un romanzo sulla maternità e sulla schiavitù, scrive Alessandro Portelli nella post-fazione al romanzo edito in Italia da Pickwick, è un romanzo politico, storico, femminista. E’ un romanzo necessario, hanno scritto su La Repubblica, “leggere la Morrison significa venire illuminati” scrive Il Corriere, e ancora molto scriveranno di lei, ora che non c’è più.

Oggi anche io voglio cullare il ricordo di una donna che ha avuto il suo debutto letterario a 40 anni,  in un sistema di stampa spietato come quello americano che ama esordienti sempre più giovani, e che è stata la prima donna nera a vincere il Nobel della letteratura.

Cullo alcune frasi che ho sottolineato e accanto alle quali ho appuntato delle parole, dei pensieri. Così voglio ricordarla stasera, pensando a un’altra grande autrice americana, Emily Dickinson, che come lei ha reso vive le parole “Una parola muore appena detta, qualcuno dice/ Io dico che solo quel giorno, inizia a vivere”.

Toni Morrison è viva nella descrizione di Sethe, la madre disperata di Amatissima che nonostante il dolore Sentiva il cuore scalpitarle in petto come un puledro. Toni Morrison è viva nella denuncia di una delle peggiori atrocità della storia:

-Dimmi una cosa, Stamp- Paul D aveva gli occhi lucidi -Dimmi solo questo. Un negro quanto deve sopportare? Dimmi. Quanto? -Tutto quello che può -Perché? Perché? Perché? Perché? Perché?

E’ viva quando descrive il suono della schiavitù come un ritmo jazz: Le canzoni che aveva imparato in Georgia erano come chiodi nella testa piatta, su cui poteva pestare, pestare, pestare, quando parla d’amore: I tre non si tenevano per mano, le loro ombre, però, si.

E’ viva quando descrive la maternità, l’esperienza più alta e potente per una donna: Che Dio me ne scampi, pensò. A meno d’essere irresponsabili, l’amore materno era micidiale.

Toni Morrison è viva quando descrive questo addio, il più bello che abbia mai letto in un romanzo, che mi fa pensare a Tarkovskij  –Tu hai due piedi, Sethe, non quattro zampe- disse, e proprio in quel momento spuntò tra loro una foresta, silenziosa e inviolata. –Addio- sussurrò lei dall’altra estremità della foresta. E’ viva quando fa politica: i matti non saranno adatti a governare, ma per i lavori sporchi sono i migliori e lo è quando parla del dolore, semplicemente: C’è una solitudine che può essere cullata. (…) poi c’è una solitudine che vaga. Neanche cullandola la si può tenere ferma. E’ viva, per conto suo.

Ed è viva nella speranza, soprattutto:

Le spore di felce azzurra che crescevano nei fossi, lungo gli argini del fiume, avanzavano ondeggiando verso l’acqua in argentee file azzurrine difficili da scorgere, a meno che uno non si trovasse in mezzo o almeno vicino, sdraiato proprio sulla sponda del fiume, quando i raggi del sole sono bassi ed esangui. Spesso le si prende per insetti – invece sono semi nei quali riposa un’intera generazione, fiduciosa nell’avvenire. E, per un attimo, è facile credere che ogni seme avrà il suo futuro – che compirà quanto è contenuto nella spora, che vivrà fino all’ultimo giorno della sua vita, come programmato. Questo attimo di certezza non dura più di tanto: più a lungo, forse, della spora stessa.

Viva nella speranza, nell’America rancorosa che oggi perde una voce libera, perché il volto della bambina ammazzata da sua madre per troppo amore resta una metafora indimenticabile, una specie di statua parallela a quella dei conquistatori, la statua di una schiava di cui nessuno ricorda il nome, a cui nessuno importa il nome, ma che reclama a gran voce in bisogno di non essere dimenticata.

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