Libertini, esteti e narcisisti: così Barnes riscopre i vizi della Belle Époque

by Fabrizio Simone

Nel 2015 la National Potrait Gallery di Londra ha esposto un grande dipinto (201.6 cm × 102.2 cm) del pittore americano John Singer Sargent, Il Dottor Pozzi a casa (1881), posseduto dalla Armand Hammer Foundation di Los Angeles solo dal 1991, nell’ambito di una mostra monografica interamente dedicata alla sua produzione ritrattistica (figuravano, tra gli altri, anche i ritratti di Stevenson e di Eleonora Duse, suoi amici).

Un visitatore illustre, Julian Barnes, romanziere e saggista pluripremiato, ha deciso di dedicare il suo nuovo libro, L’uomo con la vestaglia rossa (Einaudi, 22 euro), proprio al protagonista del ritratto di Sargent, il ginecologo Samuel-Jean Pozzi (1846-1918), immortalato in una posa virile e spavalda, cui il rosso conferisce un’elevata sensualità. Galeotta fu la mostra e chi la vide. La tela di Sargent, tra l’altro, dovrebbe essere familiare anche al pubblico italiano, soprattutto perché per più di un decennio (2003-2016) è comparsa sulla copertina del Ritratto di Dorian Gray edito dalla Mondadori.

Il Dottor Pozzi a casa ebbe numerosi estimatori ma piacque in particolare ad Henry James, che in occasione del suo 70° compleanno fu omaggiato da Sargent proprio con un celebre ritratto (quando questo fu esposto alla Royal Academy, nel maggio 1914, una suffragetta di nome Mary Wood sfigurò tre volte la tela con una mannaia, colpendo l’area intorno all’occhio destro di James prima di essere arrestata).

Lo stesso James, per di più, poté conoscere il chirurgo di Bergerac, giunto a Londra nel 1885 con una lettera di raccomandazione di Sargent. Il 2 e 3 luglio 1885, infatti, Pozzi, insieme a due tra i più raffinati aristocratici del tempo, il conte Robert de Montesquiou e il principe Edmond De Polignac (sua moglie, Winnaretta Singer, fu la più grande mecenate a cavallo tra i due secoli e Ravel, ad esempio, le dedicò la Pavana per una infanta defunta), visitò la capitale inglese guidato dall’autore di Giro di vite.

Pozzi, all’epoca, aveva trentotto anni, Montesquiou trenta, James quarantadue e Polignac cinquantuno. I tre francesi morivano dalla voglia di conoscere l’estetismo londinese, perciò furono presentati a William Morris, a Lawrence Alma Tadema e a James Abbott Whistler, che Montesquiou finì per idolatrare e imitare (gli copiò la barba, l’abbigliamento, i gesti, la voce, lo spirito e il gusto). Le spese folli a Bond Street – cifre elevate furono dilapidate in vestiti, cappelli, cappotti, camicie, cravatte, profumi e costosissimi libri rilegati – rivelarono la reale propensione del trio francese, animato non solo dalla curiosità ma anche da un’irrefrenabile smania per la bellezza. Tornato in fretta a Parigi per curare Alexandre Dumas figlio, Pozzi pregò il conte di acquistare trenta rotoli del tessuto per tende color alga marina. La lussuosissima casa di place Vendôme meritava solo il meglio.

All’origine del viaggio, tuttavia, potrebbe esserci una motivazione ben precisa: Pozzi, medico dell’alta società, potrebbe aver guarito l’impotenza o forse l’eiaculazione precoce di Montesquiou, meritando quindi l’invito del conte in terra inglese. Una prova è contenuta in una poesia scritta da Montesquiou (le sue opere non giunsero mai al successo perché pubblicate in edizioni private e limitate, con stampa e rilegatura di gusto squisito, molto costose) ed inserita in un lussuoso borsone in pelle marocchina, acquistato da Asprey a Mayfair, con un diadema dorato e la lettera R impressi sulla parte superiore, donato l’anno precedente all’amico. La poesia, scritta con inchiostro rosso scarlatto e violetto, ringraziava Pozzi per aver curato ciò che nei versi viene definita «la vitalità della foglia morta». James, comunque, nel 1886 fece da Cicerone anche ad un altro illustre francese, Guy de Maupassant, che lasciò in fretta il suolo britannico dopo aver visitato Oxford e il museo delle cere di Madame Tussaud. Neppure l’operetta di Gilbert e Sullivan rappresentata al Savoy Theatre riuscì a distrarlo dalle fredde temperature anglosassoni.

Se Pozzi è il protagonista indiscusso della ricostruzione di Barnes, lo spazio concesso alle stravaganti vicende biografiche di Montesquiou è pur sempre minimo di fronte alla reale portata storica del conte e al suo indiscutibile apporto alla Belle Époque. Dalla vita di Montesquiou potremmo estrarre materiale per interi libri di aneddoti (il nazionalista Leon Daudet ne raccolse alcuni, gustosissimi, in Fantômes et Vivants). Montesquiou, discendente di d’Artagnan, trascorreva le sue giornate accumulando oggetti impensabili e decorando i suoi palazzi obbedendo solo alle sue bizzarre teorie estetiche (Mallarmé rimase stupito quando vide arredi di chiesa all’interno della sua abitazione).

La sua collezione comprendeva un pelo della barba dello storico liberale Michelet, una vecchia sigaretta fumata da George Sand, una lacrima essiccata del poeta Lamartine, il proiettile che ha ucciso Puškin, una scarpetta da ballo appartenuta a Teresa Guiccioli, una bottiglia di assenzio scolata da Alfred De Musset, una calza da giorno di Mme de Renal firmata da Stendhal, una tartaruga col guscio dipinto d’una vernice dorata e tempestato di pietre preziose (l’idea della tartaruga era della poetessa Judith Gautier, figlia di Théophile, cui Baudelaire dedicò I fiori del male). La sua abitazione preferita era stata costruita durante il Secondo Impero, in stile Petit Trianon, a Neuilly, ai margini del Bois de Boulogne. La ribattezzò il Padiglione delle Muse e vi risiedette dal 1899 al 1909. Oltre a raffinate rilegature, la biblioteca del Padiglione delle Muse conteneva due autentici reperti: una ciocca dei capelli di Byron e un bozzetto che Baudelaire aveva fatto dell’amante. In questo palazzo conservò il ritratto realizzato da Whistler tra il 1891 e il 1892 e quello indimenticabile che reca la firma di Giovanni Boldini, in cui il conte impugna uno dei suoi famosi bastoni da passeggio ed indossa un elegantissimo abito grigio.

Leggendaria l’amicizia con Proust, amico e discepolo. Quando i due si conobbero, il giovane scrittore cominciò a copiare il conte, più o meno consapevolmente, nelle lettere e nella gestualità, e anche nel modo in cui teneva il tempo con il piede. Proust cominciò persino a portarsi la mano alla bocca quando rideva – sebbene Montesquiou lo facesse soltanto per nascondere i suoi denti inguardabili. Nel 1893 Montesquiou inviò a Proust un suo ritratto con dedica («Io sono il sovrano delle cose transitorie»): il conte si autocitò (la citazione è tratta dalla sua prima raccolta poetica, Les Chauves-Souris) e Proust scrisse un articolo consacrandolo definitivamente «Professore della Bellezza».

La maschera dell’esteta gli valse anche un posto nella storia della letteratura francese: fu modello di Huysmans per il protagonista di Controcorrente (la traduzione in inglese arrivò solo nel 1922 ma Wilde riuscì a leggerlo in francese e il romanzo fu utilizzato come prova durante il primo dei tre processi da lui subiti per via dei suoi riferimenti omosessuali) e Proust si ispirò a lui per il personaggio del barone di Charlus, ferendo profondamente l’anziano conte.

A Pozzi andò meglio: se la cavò diventando il dottor Cottard della Recherche. Del resto Pozzi era un amico di famiglia dei Proust: invitò il giovane Marcel alla sua prima «cena fuori» a place Vendôme e in seguito lo aiutò a evitare il servizio militare; mentre il fratello minore, Robert, fu assistente di Pozzi dal 1904 al 1914. Le cene dai Pozzi piacevano tanto anche ai giovani pittori, tutti con capelli ricci e gardenie all’occhiello. 

Nella collezione di Pozzi, andata all’asta un anno dopo la sua morte, non c’era spazio per le stravaganze del conte. Pozzi, infatti, preferì investire grosse somme nell’acquisto di antiquariato, arazzi, monete greche, miniature persiane, opere di Turner, Sargent, Millet, Gericault, Corot, Delacroix, vasi greci e bassorilievi egizi.

Un libertino impenitente come Pozzi non avrebbe neppure trovato il tempo necessario da dedicare alle rarità inanimate amate . Si sposò con Thérèse Loth Cazalis, la cui famiglia, cattolica e monarchica, si arricchì in fretta investendo nella ferrovia. Ebbero tre figli – l’antifemminista Catherine s’innamorò follemente di Paul Valéry, ma lo giudicò troppo cinico ed egoista; il secondogenito fu un buon diplomatico mentre il terzogenito impazzì ancora giovane e trascorse i suoi ultimi anni di vita dicendo di incontrare periodicamente gli alieni – ma questo non impedì al medico di tradire a più riprese sua moglie.

Sedusse uno stuolo di nobildonne, intellettuali ed ereditiere, incluse Mme Straus (la vedova di Bizet) e Judith Gautier, ma trovò in Emma Fischoff una compagna stabile per 15 anni: insieme girarono i teatri d’Europa (i due, wagneriani incalliti, si recarono spesso a Bayreuth ad ascoltare le opere del loro idolo) e durante un viaggio a Venezia furono benedetti da un vecchio monaco armeno nonostante fossero entrambi sposati.

Ebbe la fama d’essere un medico che si portava a letto le pazienti (tutte consenzienti) e che probabilmente usava le visite come preliminari, ma fu uno dei pochi a lasciare un ricordo indelebile in Sarah Bernhardt, inguaribile ninfomane (quel pettegolo di Jean Lorrain sostiene che la Bernhardt riuscì a raggiungere l’orgasmo solo negli ultimi dieci anni grazie all’intervento del dottor Odilon Lannelongue, che l’aveva dotata di «una ghiandola impiantata chirurgicamente in grado di risolvere la secchezza vaginale»). L’incontro con la Bernhardt fu favorito dal suo mentore, il poeta parnassiano Leconte de Lisle (lo presentò anche a Victor Hugo, che ascoltò Pozzi recitare le sue poesie e troncò sul nascere il sogno poetico del giovane medico), ma presto arrivarono le cene a casa dell’attrice.

La divina Sarah cadde facilmente nella trappola del seduttore e finì per ingrossare l’interessante catalogo di questo don Giovanni col bisturi, famoso anche per la pubblicazione di un fortunatissimo Traité de gynécologie clinique et opératoire in due volumi: oltre 1100 pagine, rimase il testo standard in Francia fino agli anni Trenta e ben oltre la morte di Pozzi.

Il Trattato di ginecologia di Pozzi fu immediatamente tradotto in inglese, tedesco, russo, italiano e spagnolo e subito riconosciuto come il testo standard a livello mondiale. Non sappiamo di preciso quanto durò la relazione con la Bernhardt, ma la loro amicizia durò mezzo secolo e lei gli affibbiò un appellativo alquanto singolare, «Docteur Dieu». Di fatto, però, quel malizioso di Edmond De Goncourt, nel suo Journal, rivela che Sarah Bernhardt andò a letto anche con Montesquiou, notoriamente omosessuale. Complici non solo sul palcoscenico della vita, anche a letto a quanto pare, ma solo in sporadiche occasioni.

Nell’affresco corale di Barnes emerge anche un interessante propensione al duello per i parigini più in vista. Nel 1901 il quasi sessantenne poeta Catulle Mendès (Nietzsche gli dedicò i Ditirambi di Dioniso e D’Annunzio saccheggiò spesso le sue liriche preziose) fu colpito all’addome da un certo Georges Vanor, restando per tre settimane fra la vita e la morte.

L’origine della baruffa? Stabilire dietro le quinte del teatro l’effettiva magrezza di Sarah Bernhardt nel ruolo di Amleto. Al futuro presidente della Repubblica Georges Clemenceau (si batté per non riconoscere l’assegnazione di Fiume all’Italia dopo la Prima Guerra Mondiale) andò meglio e vinse quasi tutti i ventidue duelli combattuti; il dottor Pozzi, eletto senatore, votò a favore per il processo ad un gruppo di congiurati monarchici e nazionalisti, perciò fu sfidato a colpi di spada dal medico Paul Devillers, amico di uno dei sovversivi. Quel pessimo spadaccino di Montesquiou perse contro il poeta Henri de Régnier (canzonò il conte affermando che fosse più interessato ad un ventaglio o a un manicotto) ma Pozzi corse a soccorrerlo; fu sconfitto anche dal figlio di Mme Ernesta Stern, mediocre poetessa nota soprattutto per il suo peso abbondante. Non è chiaro se Montesquiou ne avesse messo in ridicolo la stazza o i versi.

Nel sottobosco dei personaggi raccontati da Barnes emerge, ovviamente, anche Oscar Wilde. Quando fece visita a Degas nel suo studio di Parigi, il pittore commentò: «Si atteggia come se stesse recitando Lord Byron in un teatro di provincia». De Goncourt rincarò la dose definendolo un fanfarone. Memorabile anche l’invito a cena a casa di Proust. Il dandy inglese anticipò il padrone di casa ma alla vista dei genitori dello scrittore preferì scappare in bagno. Wilde lasciò l’abitazione senza cenare, disgustato anche dall’arredamento scelto dai coniugi Proust. Insomma, L’uomo con la vestaglia rossa è il libro che aspettavamo da tempo per comprendere meglio quest’età capricciosa ma eternamente affascinante.

‘Dr Pozzi at Home’ (1881), portrait of Samuel-Jean de Pozzi by John Singer Sargent

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.