«L’unica persona nera nella stanza». Intervista a Nadeesha Uyangoda

by Niccolo Bellon

Nadeesha Uyangoda è nata in Sri Lanka, cresciuta a piedi scalzi, ha imparato l’italiano dieci parole per volta, ripetute dopo cena, prima di andare a dormire, con sua mamma.

La incontro il giorno dopo la sua prima presentazione in presenza – “Una grande emozione, per me e per la libreria che mi ospitava. Finalmente, dopo tanto tempo”. Ha una parlata svelta, di chi deve dire tante cose e ha paura di non aver tempo e si tiene tutto lì pronto, sulla punta della lingua. Non lascia al caso nemmeno una virgola, perché lei lo sa quanto grava una parola sbagliata.

Nadeesha un paio di anni fa ha scritto un pezzo sul magazine NOT, un pezzo che ha avuto abbastanza successo e che sta alla base della nascita del suo primo libro, L’unica persona nera nella stanza (ed. 66thand2nd, 176 pagine, 15 euro). Un saggio, un memoir, un’analisi attenta sul razzismo, l’identità, il linguaggio, il corpo. Il racconto urgente di chi per tanto, forse troppo, tempo si è sentita l’unica persona nera nella stanza e ha deciso di raccontarlo, di offrire una narrazione a una minoranza etnica che non ne possiede alcuna, di sviscerare la questione razziale in un paese che ancora stenta a fare i conti con essa.

In Italia si fa fatica a parlare di razza.

È un termine che ci mette a disagio. Ci riporta a un determinato contesto storico: le persecuzioni razziali, il nazifascismo, il razzismo genetico. Inoltre, si affronta poco anche la questione del colonialismo del Corno d‘Africa e c’è anche questa idea che gli italiani non siano razzisti perché a loro volta hanno subito razzismo, e alcuni sostengono ne subiscano ancora.

Ed è così?

C’è stato, c’è ancora, un sentimento antitaliano, ma è un pregiudizio basato su stereotipi. Non è strutturalmente razzismo, e non possiamo paragonarlo a quello perpetuato verso le persone di minoranza etnica.

Dice Mike Chalandra Achode (graphic design e insegnate alla University of the Arts London), romano originario del Benin: “Si è vero in Italia c’è il razzismo, ma almeno il razzismo italiano è autentico”.

Mike vive nel contesto inglese e comprende appieno la grande differenza tra l’aperta ostilità dell’italiano bianco verso la persona nera rispetto alla multiculturalità inglese.

In Italia spesso dicono apertamente di non essere razzisti, poi chiamano le persone nere in modo offensivo o le escludono dal dibattito pubblico. Tutte forme di razzismo che vengono praticate apertamente, senza però dichiararsi razzisti.

Cosa divide il razzismo dall’involontaria assimilazione culturale?

La consapevolezza. La volontà di andare oltre e modificare il nostro comportamento. Cercare di decostruire comportamenti, modi di fare, immaginari che abbiamo assimilato per educazione, dal contesto in cui siamo cresciuti. Il volersi liberare di queste cose vuol dire riconoscere il proprio razzismo interiorizzato. Ed è il primo passo per sconfiggerlo.

Scrive: “Ho sfregato via quanto di me era possibile, eppure la razza è rimasta con me. Continuava a perseguitarmi ed era questo, ancor più del concetto in sé, a definirmi.” Quindi cos’è, per lei, la razza?

Un elemento astratto e concreto che impatta sulla vita delle persone razzializzate, che vengono percepite socialmente come nere o come stranieri, e per questo marginalizzate. È un concetto che influenza la loro vita sia su un piano pubblico, si pensi a come si interfacciano come il resto della società, o come vengono rappresentate, e su un piano privato, nelle relazioni familiari, lavorative, amicali.

E che impatto può avere?

È una questione identitaria. Non a tutte le persone importa della questione razziale e non su tutte ha avuto effetto la razza in quanto concetto.

Perché?

Ci sono persone che sulla propria identità non hanno mai dovuto soffermarsi. Questa è la vera libertà: il non dover definire se stessi rispetto alla società. Le persone razzializzate non hanno questo privilegio.

Sembra che le persone nere italiane non possano sottrarsi al dibattito riguardante la razza.

È vero. È un rito di passaggio, quasi obbligato. Anche quando vogliono parlare d’altro, in Italia, devono prima parlare di razzismo, soltanto così acquisiscono rilevanza, esistono davvero.

Penso ad Antonio Dikele di Stefano che alla conferenza stampa della nuova serie Netflix “Zero”, la prima con protagonisti ragazzi neri italiani, disse: “L’obiettivo è arrivare a una conferenza stampa in cui si parla di cioè che facciamo, non di che colore siamo”.

Per me è ancora difficile parlare di persone nere dimenticandosi che sono effettivamente nere. È proprio quello, a livello estetico, a determinare la vita di una persona razzializzata. L’impatto sociale che il colore della pelle porta con sé è ancora fortissimo.

Crede che si fatichi ad avere una narrazione delle minoranze etniche a causa delle difficoltà che una persona straniera, arrivata nel nostro paese o in un altro, può incontrare nell’affrontare e imparare e quindi utilizzare una lingua nuova?

C’è sicuramente un problema di inserimento per mancanza di strumenti linguistici. Questo, nella letteratura post-coloniale, tra gli anni Ottanta e Novanta, in parte è stata risolto attraverso le cosiddette “autobiografie collaborative” in cui autori bianchi italiani affiancavano i migranti e li aiutavano ad esprimersi e raccontare la propria storia. È sicuramente un limite che ancora c’è e che spero si possa superare attraverso le secondo generazioni.

Un anno fa veniva ucciso George Floyd, evento cardine per il dibattito su razzismo e antirazzismo. È necessario un gesto così estremo per riaccendere l’attenzione su questi temi?

Non è mai necessario che venga uccisa una persona. Va ricordato, inoltre, che il razzismo non si manifesta solo in maniera violenta. Abita il quotidiano in maniera strisciante, sotterranea, più o meno esplicita. La violenza fisica è l’ultimo stadio, il gesto estremo. Non va sradicata la cima, dobbiamo riflettere sugli eventi minori che accadono giorno per giorno.

Oltre a questo, cosa si può, cosa si deve, fare?

Credo che il dibattito pubblico, aperto, condiviso, anche sul linguaggio, possa portare una soluzione alla questione razziale.

È ancora l’unica persona nera della stanza?

Chi parla di razzismo, antirazzismo lo fa sempre in uno spazio virtuale, fuori un po’ meno. Certo è difficile dire con certezza, dopo un anno di pandemia, se tale atteggiamento sia determinato, appunto, dal venir meno dei concetti, sempre più sfocati, di mondo reale/mondo virtuale. Quando parliamo, invece, di narrazione mainstream, telegiornali e testate nazionali – ecco, in quei luoghi non ci sono le stesse persone che si trovano sui social network. Non c’è corrispondenza tra dibattito virtuale e quello ufficiale, che rimane sempre l’unico seguito dalla stragrande maggioranza dei cittadini.

Al suo arrivo in Italia, ripeteva dieci parole nuove per volta per imparare la lingua. Una parola, tra le tante, a cui tiene particolarmente.

Lotta.

Perché?

Ci dice di non stare mai fermi, di continuare a muoverci per i nostri diritti.  

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