“Avere tutto”, il romanzo maschile di Marco Missiroli: il passo a due tra padre e figlio e la ruvida tenerezza degli “amaracmànd”

by redazione

Marco Missiroli è tornato. Dopo il successo raggiunto con “Atti osceni in luogo privato” e “Fedeltà”, che ha vinto il premio Strega giovani nel 2019, è tornato in libreria con “Avere tutto”, edito da Einaudi. Ne parlano tutti, è terzo nella classifica di qualità della Lettura. Groenlandia ne ha già acquisito i diritti cinematografici. Chi ha già letto Missiroli, riconosce il suo talento. Quello che fa la differenza in questo suo settimo romanzo è l’autenticità. Non c’è l’artificio del bravo romanziere. Non c’è l’universo patinato di Libero Marçel. Non c’è Parigi.

Il tema affrontato, l’assenza di un vero e proprio plot, ma soprattutto la lingua, che, nella misura della sottrazione, acquista nettezza, precisione e compiutezza rendono l’ultima fatica letteraria di Marco Missiroli, un unicum. Il romanzo è strutturato in tre parti, ma la mancanza dei classici capitoli non rallenta la narrazione. L’autore, con grande maestria, sembra procedere per immagini; a scandire il ritmo è il flusso dei ricordi del protagonista, Sandro Pagliarani, sempre in prima persona e al tempo presente.

Questo è un romanzo eminentemente maschile: sì, perché è tutta compiuta nell’assenza, nella mancanza, la presenza intermittente delle donne che restano, solo apparentemente, sullo sfondo. Se “nascimento ama nascondersi” bastano pochi ricordi per Caterina, la madre, poche righe per Giulia, la ex fidanzata, poche pagine per Bibi, l’amore nuovo di Sandro.

“E in lei finisce l’ultima parte di lui: lui che ne aveva sentito parlare, lui che c’era quando io e lei abbiamo iniziato. Se lei non lo contenesse, sarebbe lei?”

Dunque, l’amore per Bibi contiene l’amore per il padre, Nando. Per la verità, ne “Il senso dell’elefante”, edito da Guanda e vincitore del Premio Campiello nel 2012, Missiroli aveva già affrontato il tema della paternità e della devozione verso i figli; è evidente, però, che in “Avere tutto” riesca a concentrarsi meglio sull’evoluzione del complesso rapporto padre/figlio, fino al suo capovolgimento, al termine del ciclo della vita.

È sempre molto interessante riuscire a vedere i propri genitori come persone, impossibile non pensare ad Annie Ernaux, a Jonathan Franzen o a Maria Grazia Calandrone. La potenza di questo romanzo è nel ritratto di un padre, che, prima di essere un padre, è un uomo, e nella comprensione di un figlio che non vorrebbe mai smettere di esserlo, ma deve, quando scopre la malattia di suo padre.

All’inizio Sandro è impietoso con “la generazione dei prudenti di merda”. Nei primi dialoghi a mezza bocca, Nando Pagliarani sembra fare l’eco a Tony Webster ne “Il senso di una fine” di Julian Barnes. Il sogno di diventare geometra tradito per diventare perito elettronico e delle telecomunicazioni, “perché in Italia oggi sono tutti geometri”, il fallimento del bar America, “perché non ho mai avuto il coraggio di andarmene a riprendere quei milioni. Secondo te lo chiamavo a Roberti? Nemmeno per sogno!” fanno di lui, un uomo che si è arreso alla vita per non perdere mai la bussola della cautela. Il padre, però, non è solo l’ex ferroviere, ormai in pensione, vedovo, che coltiva pazientemente il suo orticello e che passa ore ai fornelli a cucinare prelibatezze. Nando Pagliarani di notte va a ballare.

Già in “Bianco” edito da Guanda, Mores, dopo la scomparsa della moglie, torna a ballare.

È in pista che scorre la vita di Nando, il riscatto del Pasadèl. L’uomo mite, semplice, finalmente brilla col suo cappello da cowboy.

“È davvero mio padre, quest’uomo con i fianchi da farfalla?”

A renderlo cieco era stato il demone del gioco. In fondo, però, non è “Il giocatore” corroso, perdente e distruttivo di Dostoevskij; Sandro torna a casa proprio per vincere la sua partita più importante, quella con la vita.

“Dove vorresti essere con un milione di euro in più e vent’anni di meno?”

Così si (ri)conoscono, Nando e Sandrin, in questo passo a due, pochi mesi per una vita intera. In queste centocinquantanove pagine, Marco Missiroli commuove il lettore, senza mai essere melenso, servendosi ad arte del dialetto riminese, il suo “Lessico famigliare”. Nascosto nella ruvida tenerezza dei suoi “amaracmànd” l’amore incondizionato di un padre:

“È avere tutto Sandro Pagliarani. Averti come sei fatto per intero, boiate comprese.”

e nel silenzio, l’amore incondizionato di un figlio:

“Non poterlo ancora piangere e piangere per questo.”

Il “Patrimonio” di Philip Roth torna inevitabilmente alla memoria del lettore, in questo romanzo in cui il punto d’arrivo coincide con quello di partenza. Il patrimonio di Sandro non ha nulla a che fare con l’eredità, col denaro, è legato alla semplicità della terra, affonda le radici nella pazienza dell’attesa, trova nutrimento nell’amore dei suoi genitori, è la geografia degli affetti a Rimini. La precisione chirurgica della scrittura di Missiroli ci racconta i dettagli di una Rimini che non è quella immaginaria, quasi caricaturale di Federico Fellini, piuttosto quella fuori tempo, Rimini dei riminesi, Rimini de “La prima notte di quiete “ di Valerio Zurlini, quella “in cui i gabbiani non urlano mai”.

Federica Fabiano

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